Più della crisi potè il Bunga bunga. Così l'Europa mise da parte il Cav

Dopo lo scandalo, infierirono i nemici: da Fini a Sarkò e Merkel. Tremonti invitò Silvio a dimettersi per rubargli il posto, ma finì male

Silvio Berlusconi (Ansa)

Silvio Berlusconi (Ansa)

Andrea cangini

ROMA, 19 luglio 2014 - IL 26 OTTOBRE del 2010 il Fatto racconta che Silvio Berlusconi è coinvolto in una storia di sesso con una minorenne; il due novembre la cancelliera tedesca Angela Merkel fa sapere che ritiene inopportuno organizzare un nuovo vertice bilaterale col premier italiano. Il 14 gennaio 2011 la procura di Milano indaga Silvio Berlusconi per aver compiuto, tra l’altro, «atti sessuali» con una minorenne; nei mesi successivi Sarkozy e la Merkel sghignazzeranno pubblicamente alle spalle del Cavaliere e il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, lo inviterà alle dimissioni. Perché, gli dice a brutto muso, «in Europa il problema non è il tuo governo, ma sei tu».  Già alle prese con la dissidenza finiana, Silvio Berlusconi ha cominciato a declinare politicamente da quando le parole «Ruby» e «bunga bunga» sono comparse sui titoli della stampa internazionale. Cioè da subito. Già il primo novembre 2010 l’Economist paventa «seri danni al primo ministro italiano», il New York Times scrive che «lo scandalo ne minaccerà il governo», il Times di Londra celebra l’inizio della «fine del regno» berlusconiano. Secondo Fabrizio Cicchitto, che visse quei giorni da capo dei deputati del Pdl, «la destabilizzazione del quadro politico italiano fu immediata: bastò la notizia dei comportamenti privati di Berlusconi per renderlo impresentabile agli occhi di partner internazionali per i quali vicende del genere hanno un peso diverso che per noi italiani. L’inchiesta giudiziaria ha solo peggiorato le cose». Ovvio che la debolezza del premier abbia scatenato i suoi avversari interni. In dicembre Fini tenterà, invano, l’affondo in occasione del voto di fiducia sul governo. «Mentre Tremonti — ricostruisce Cicchitto — ne approfittò per screditare Berlusconi all’estero sperando di prenderne il posto». Andò male a tutti: a Berlusconi, certo, ma anche a Fini e a Tremonti.  I tentativi di recupero di una situazione difficilmente recuperabile sono noti. Nel gennaio 2011 il cardinal Bertone, segretario di Stato Vaticano, manifesta la «preoccupazione della Santa Sede» invitando chi ha «responsabilità pubbliche» a «una più robusta moralità». Non fa il nome di Berlusconi, ma è come se l’avesse fatto. Nel tentativo di ripristinare un’immagine familiare più ‘ordinata’, il Cavaliere annuncerà pertanto al mondo di avere «da anni» una «relazione stabile». È la premessa per la comparsa in scena di Francesca Pascale. Tutt’altro che risolutiva, però. Sui giornali filtrano racconti pecorecci d’ogni genere, ex giovanissime amanti di vecchi scrittori si impancano in difesa «del corpo delle donne», le opposizioni si mobilitano, gli alleati vacillano. Ma, pur deprecando la «satiriasi» del Cavaliere, non mollano. La maggioranza infatti tiene. Il 3 febbraio, dopo un memorabile intervento dell’onorevole Paniz, la Camera certifica che quando telefonò in questura per chiederne il rilascio, Berlusconi riteneva davvero che Ruby fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak. Dunque, essendo la questione eminentemente politica, a dirimerla deve essere non un tribunale ordinario ma il Tribunale dei ministri. Due mesi dopo, con Montecitorio circondato dai manifestanti, la Camera approva il conflitto di attribuzione contro la procura di Milano passando così la palla alla Consulta. Con la tempestività che la caratterizza, il 14 febbraio 2012 la Corte costituzionale sentenzia che no, il Tribunale dei ministri non c’entra nulla: il processo milanese è legittimo e deve andare avanti. Ma il danno è ormai fatto, Berlusconi si è già dimesso da tre mesi. Si è dimesso a causa della crisi economica e dei conseguenti diktat dei partner europei. Ma nessuno può dire con certezza come sarebbe andata la storia se l’allora premier italiano non fosse stato così vistosamente «sputtanato». Tre cose, diceva il vecchio Reagan, deve temere un leader politico: «Le donne, le donne e le donne». Ma astenersi dai piaceri della carne, scongiurando l’insidia degli scandali sessuali, fu una regola che Berlusconi mai applicò. Capita a molti, molti più di quelli che poi ne pagano lo scotto politico.