Giovedì 18 Aprile 2024

25 aprile, la storia di Bella ciao: perché non è un canto partigiano (ma lo è diventato)

Tanto limpido è il suo significato, quanto oscura è la sua origine

Roma, 25 aprile 2023 – I partigiani non l’hanno mai cantata. Questo, ad oggi, è l’unico punto fermo attorno al mistero di ‘Bella ciao’. Inno della Resistenza italiana, simbolo politico di tutte le sue celebrazioni (tra i lucciconi della sinistra e i malumori della destra), bandiera universale di libertà cantata in tutto il mondo, dalla Francia fino a Cuba. Tanto è limpido il suo significato, quanto è oscura la sua origine: semplicemente non si sa.

Perché Bella ciao non è una canzone partigiana
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Da dove nasce ‘Bella ciao’?

Sull’origine di musica e parole del brano-simbolo del 25 aprile, da anni, ormai, le ipotesi si sprecano. Un canto yiddish, ovvero ebreo, uno stornello popolare genovese del 1500, una litania cantata dalle mondine del nord Italia… a citare tutte le versioni accreditate non basterebbero decine di righe. Meglio partire da ‘quello che non’ allora, come direbbe Francesco Guccini: di un canto del genere non c’è traccia tra le brigate partigiane e la qual cosa sembrerebbe ben assodata, visto che i canzonieri della Resistenza sono codificati, narrati, tramandati dagli stessi nuclei combattenti fin dal tempo della guerra civile contro i nazifascisti, quando tra le loro file circolavano i ciclostile con i testi da cantare per farsi coraggio. Ecco dunque ‘I ribelli della montagna’, ‘Fischia il vento’, ‘Addio Lugano bella’, Bandiera rossa’, ‘Marciam, marciam’, ma di ‘Bella ciao’ neppure l’ombra.

Le false piste, dall’Abruzzo a Reggio Emilia

A un certo punto qualcuno ha iniziato a sostenere di aver trovato tracce di ‘Bella ciao’ nel canzoniere dei partigiani abruzzesi della celebre Brigata Maiella. Un’ipotesi smentita per via documentale e da varie fonti qualificate. La prima, indiretta, è quella di Nicola Troilo, figlio di Ettore, il fondatore della brigata, che nella biografia del padre dedica un capitolo ai loro canti, citandone a bizzeffe senza mai fare riferimento né a delle belle, né tanto meno a dei ciao.

La seconda, addirittura diretta: c’è il diario autografo del partigiano abruzzese Donato Ricchiuti, in cui si racconta di come, in assenza di canzoni simbolo della brigata, fu proprio lui a comporre l’“Inno della lince”. Secondo altri ‘Bella ciao’ era cantata dai partigiani reggiani, no modenesi, anzi, no, bolognesi, e anche in questo caso di tracce non se ne trovano. A un certo punto si era provato ad accreditarla al celebre ‘Canzoniere delle Lame’, un tentativo posticcio e dunque smascherato. Si potrebbe andare avanti per ore nella descrizione di quello che per gli storici è un caso da manuale di ‘invenzione della tradizione’. Ovvero un evento posticcio che, per i suoi elementi di totale integrazione e aderenza alla realtà storica documentale, a un certo punto ne sembra diventare naturalmente parte. È successo spesso in musica. Con i briganti, ad esempio: c’è una canzone, ‘Brigante se more’, che dappertutto  nel Centro-Sud viene attestato come brano popolare della tradizione. La cantavano i nonni? Sì, certo, è un testo antichissimo. Peccato che non ve ne sia traccia e che il suo vero autore, Eugenio Bennato, fratello di Edoardo, abbia portato negli anni decine di prove sul fatto di averla composta di suo pugno a fine anni ‘70, quando la Rai gli chiese la colonna sonora di uno sceneggiato tv. Ma che cos’è la tradizione, d’altronde, se non un’innovazione ben riuscita, come amava dire Oscar Wilde?

Un dato certo: c’entra il Piemonte

Cosa sappiamo di sicuro su ‘Bella ciao’? Che a un certo punto qualcuno ha riconosciuto dentro a un canto ‘klezmer’, un genere di musica popolare molto diffuso tra gli ebrei di stanza nell’est Europa, un frammento del canto partigiano. Si tratta delle note iniziali. Quelle che accompagnano parte della prima strofa: ‘Una mattina / mi son svegliato / o bella ciao…’. E poi stop: da qui in poi il brano yiddish parte verso altri lidi e lascia gli storici italiani in braghe di tela. In più si apre un secondo dilemma. Perché il brano in questione è stato inciso nel 1919 a New York da Mishka Ziganoff, un fisarmonisica ucraino di Odessa, due luoghi entrambi ben distanti da quell’Appennino dove poi in teoria il canto avrebbe attecchito durante la guerra di Resistenza.  Ma è un falso problema, se si pensa al viaggio che la tradizione orale può fare nel corso dei secoli. In quelle note, difatti, alcuni riconoscono addirittura un canto normanno databile attorno al XVI secolo. E il testo? In questo caso il gioco degli antenati potrebbe essere più semplice, perché un testo simile proprio dalla Francia si sarebbe diffuso poi nel Nord Italia, tra Piemonte, Trentino e Veneto, con significati del tutto differenti e qualche costanza nello svegliarsi la mattina, portare fiori ai defunti e salutarli con un ciao. Ecco, almeno un punto fermo.

La vera storia di Bella Ciao

Galeotto fu il Festival dei due mondi di Spoleto, dove nel 1964, ben molti anni dopo la guerra di Liberazione, dunque, in un cartellone intitolato proprio ‘Bella ciao’ e dedicato ai canti di lotta e ai canti di lavoro, la nostra canzone fu inserita per ben due volte, in una versione partigiana e in una variante delle ‘mondine’ che erroneamente si credette potesse essere l’originale. Nulla di più falso: quella seconda versione legata alla raccolta del riso, si scoprì ben presto, era recentissima, portata al festival dalla cantante Giovanna Daffini che ne rivendicò la maternità prima di venire sconfessata da un suo concittadino (si parla di Gualtieri, Reggio Emilia), autoproclamatosi a sua volta autore del testo dedicato alle mondine, mutuato da un canto partigiano che a sua volta qualche anno dopo un carabiniere toscano rivendità. La sua prima apparizione tra i canti della Resistenza, Bella Ciao l’aveva effettuata però a dire il vero nel 1953. Siamo su ‘La Lapa’, una rivista di cultura popolare stampata a Rieti. Il quotidiano comunista L’Unità quattro anni dopo la inserì, pur in posizione defilata, tra gli inni della Resistenza ed è da lì che gli organizzatori del Festival dei due mondi di Spoleto la recuperarono quando decisero di dedicare l’edizione del 1964 alle canzoni partigiane.

Sì, ma il suo successo?

Lasciato il terreno periglioso delle ipotesi araldiche, è forse meno complesso capire perché, invece, da quel 1964 in poi ‘Bella ciao’ si sia imposta in un modo così potente come ‘IL’ canto della Resistenza per eccellenza. Il motivo, una volta tanto è politico, e risiede nella sua totale assenza di bandiere e riferimenti di parte. Nelle sue storie c’è solo il popolo, c’è l’invasore, ci sono i partigiani. Tanto basterebbe a raccontare la storia di una guerra civile che ha visto l’apporto – certo, ìmpari – di molte anime, mai poi davvero riconciliatesi tra loro, in una pacificazione tra parti in causa che ancora oggi, così tanti anni dopo, risulta così lontana dal venire. Meglio i partigiani comunisti? I socialisti? I cattolici? I repubblicani. I primi, rappesentati dall’Anpi dopo la scissione delle associazioni partigiane, hanno sempre avuto la maggiore. Ma per rappresentare tutta la storia della Resistenza, convennero anche loro, serviva una canzone che non avesse bandiere rosse e soli dell’avvenire. Dunque Bella Ciao. C’è un partigiano che si sveglia al mattino e saluta la sua bella per andare a colorare col suo sangue la strada che porta alla libertà di un’intera Nazione. E come non emozionarsi, tutti? Tanto è bastato a ‘Bella ciao’ per diventare, da quel 1964, e in pochissimi anni, l’inno per eccellenza della Resistenza. Un brano che - ed è questa forse la cosa più ironica oggi - impostosi proprio per aver messo alla porta i riferimenti di parte, è poi rientrato quasi naturalmente nell’immaginario della sinistra italiana.

La canzone italiana più famosa al mondo

E poi c’è il mondo. Ci sono le oltre quaranta lingue in cui questo fortunatissimo pezzo della nostra storia civile è stato tradotto, quasi sempre e quasi dappertutto con l’intento di rappresentare la resistenza, la libertà, la lotta contro i soprusi. E sarà un’operazione forse posticcia, non lo sapremo mai davvero, ma di sicuro è scintillante. Perché il canto che celebra il coraggio dei partigiani che hanno sconfitto il nazifascismo per noi, a un certo punto dal nostro Appennino e dalle manifestazioni del 25 aprile ha preso a volare dappertutto. La si ritrova ancora oggi nelle manifestazioni per il lavoro, contro i licenziamenti e i soprusi della globalizzazione. È risuonata tra i braccianti messicani in California negli anni ‘60, più recentemente nei cortei dei turchi contro Erdogan e oggi tra gli ucraini in guerra contro Putin. Ha accompagnato vittorie sportive, ce la siamo ritrovata financo tra i rapinatori dell’amata serie tv spagnola, La casa di carta. Lì in molti hanno storto il naso. Comprensibile. Come in quell’estate in cui una sua versione andò di moda addirittura in discoteca, tra i cocktail e gli strusci. Ma bisogna starci. Perché le canzoni, diceva Vasco, sono come i fiori. Nascono da sole, sono come i sogni. E i sogni di libertà, soprattutto loro, quando poi si avverano non sono più di nessuno. Perché sono diventati di tutti.