SIAMO ancora lì, al referendum tradito del ’93. Esattamente vent’anni fa, 34 milioni di italiani votarono «Sì» al referendum radicale per abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Da allora, i partiti hanno cambiato nome alla cosa, ma la sostanza è rimasta tale: denominato «rimborso elettorale», il finanziamento pubblico è infatti sopravvissuto, tra il 2001 e il 2010 è cresciuto del 182%, lo scorso anno Monti l’ha dimezzato e fino a ieri rappresentava l’89,3% di quel che entrava nelle casse dei partiti.

Non è detto che da domani la proporzione cambi. Né che diminuisca in maniera consistente l’esborso complessivo da parte dello Stato. Il governo non ha infatti «abolito il finanziamento pubblico dei partiti» come annuncia pomposamente l’articolo 1 del disegno di legge redatto ieri dai ministri, ma l’ha nuovamente ribattezzato. Si parla ora di «destinazione volontaria». Dove la «volontà» del cittadino sta nel decidere a chi riversare il 2 per mille della propria dichiarazione dei redditi, se ai partiti o allo Stato. Ma a differenza di quel che accade col 5 per mille alle organizzazioni socialmente meritevoli, se il contribuente non specificherà nulla, quei soldi non andranno tutti allo Stato ma verranno condivisi col sistema partitocratico.

UN MECCANISMO parzialmente simile a quello dell’8 per mille, solo che l’inoptato anziché rimpolpare le finanze di madre Chiesa rimpolperà quelle di papà Partito. Il ministro Gaetano Quagliariello ha reso nota l’esistenza di un tetto massimo: 61 milioni l’anno, pari a meno di un decimo (7,7%, a essere precisi) di ciò che si otterrebbe se tutti i contribuenti devolvessero il proprio 2 per mille alla politica. Si tratta dunque di trenta milioni meno della cifra stanziata dal governo Monti per il 2013: da 91 milioni si passa a 61 milioni. Non un punto e a capo, dunque, ma un punto e virgola; non un taglio netto, ma un risparmio di circa un terzo. Che potrebbe però essere colmato dal costo dei nuovi benefit riconosciuti ai partiti (ad esempio: il demanio si impegna a fornirgli una sede in ciascun capoluogo di provincia) e dalle manine interessate dei parlamentari che in commissione e poi in aula dovranno perfezionare la norma.

Quella delle detrazioni fiscali per chi, stavolta davvero «volontariamente», finanzia uno o più partiti è invece una novità assoluta. Si ispira ai sistemi anglosassoni, dove partecipazione, spirito civico e solidarietà sono dati del carattere nazionale e dove (salvo blandi contributi ai partiti d’opposizione in Inghilterra) lo Stato mai si sognerebbe di finanziare direttamente un partito politico. Ci pensano i privati. Ed era esattamente questa la proposta approvata dagli italiani col referendum del ’93. Una proposta ‘radicale’, appunto. E in controtendenza rispetto a quel che accade in quasi tutte le democrazie europee, dove lo Stato in effetti i partiti li finanzia direttamente. Il governo Letta ha dunque scelto una terza via che somma, e non sottrae, ai benefici del sistema francese quelli del sistema inglese. Scelta prudente, forse troppo. Soprattutto se, com’è chiaro, l’obiettivo era raggiungere la massima popolarità possibile. Già si annunciano, infatti, nuovi e più radicali referendum. Perché, in fondo, risulta piuttosto difficile sostenere che il glorioso Labour party britannico funzioni peggio del Partito democratico italiano. E perché in Inghilterra i nomi Fiorito e Belsito sono di impossibile traduzione.