Venerdì 19 Aprile 2024

Yehoshua, lo scrittore “figlio“ di De Amicis

Morto a 85 anni il romanziere israeliano, legatissimo all’Italia e al libro “Cuore“. L’impegno con Oz e Grossman per la pace con i palestinesi

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di Lorenzo Guadagnucci

L’omaggio più bello che uno scrittore possa ricevere, gliel’ha rivolto ieri, nel giorno della morte, Elena Loewenthal, autrice e traduttrice di molti scrittori israeliani: "Dai libri di Yehoshua si esce con più umanità rispetto a prima". Abraham Yehoshua si è spento ieri a Tel Aviv, all’età di 85 anni, ed è stato giustamente salutato come "uno dei maggiori scrittori contemporanei", senza altri aggettivi o specificazioni: era israeliano e al suo tormentato paese ha dedicato romanzi, saggi, interventi e pensieri, ma la sua vocazione letteraria è sempre stata universale. Ha scritto romanzi storici, ha indagato l’identità ebraica e il conflitto con i palestinesi, ma l’attenzione maggiore di Yehoshua è sempre stata per le persone, per i rapporti di coppia, per le relazioni familiari e di comunità. Perciò i suoi romanzi – tradotti in tutte le principali lingue, letti e premiati in mezzo mondo – hanno più chiavi di lettura e molteplici vie d’accesso alle trame e alle psicologie dei personaggi; in più occasioni sono stati portati al cinema.

Il successo internazionale arrivò per lui nel 1977 con L’amante, ritratto di una coppia negli anni della guerra dello Yom Kippur, un romanzo sui sentimenti e la difficoltà di comunicazione, con uno sguardo al muro invisibile cresciuto fra ebrei e arabi israeliani. Ne Il signor Mani, uscito nel 1989, da molti considerato il suo capolavoro, ha scavato all’indietro per cinque generazioni in una famiglia di ebrei sefarditi. In Un divorzio tardivo, del 1982, l’attitudine a rappresentare la massima pluralità di punti di vista trova espressione nelle voci, una per capitolo, che convergono a raccontare la stessa vicenda, il ritorno in Israele dagli Stati Uniti dell’ormai anziano Yehudà al solo fine di divorziare dalla moglie, internata in un ospedale psichiatrico.

Nato a Gerusalemme in una famiglia sefardita – il padre Yaakov intellettuale discendente di ebrei di Salonicco; la madre Malka, nata in Marocco, legata alla cultura francese – Yehoshua credeva nel sionismo ma ha fatto del dialogo fra diversi la cifra della sua vita e della sua opera. Aveva scelto di vivere ad Haifa, la più “mista“ delle città israeliane, e aveva insegnato in Francia e negli Stati Uniti; un rapporto speciale lo legava all’Italia, che era per lui l’altra sponda del Mediterraneo, la via d’accesso all’Europa continentale. Fra Venezia e Padova è ambientato il suo ultimo libro, La figlia unica, uscito nel 2021.

In un intervento di una decina di anni fa, riproposto ieri pomeriggio da Fahrenheit di Radiotre, aveva spiegato le sue ragioni: "Dante è l’architrave della cultura occidentale, senza di lui non ci sarebbero stati né Cervantes né Shakespeare. E poi adoro De Amicis, uno scrittore che proprio in Italia è poco apprezzato. Quanto volte mi sono sentito dire: De Amicis? Con quelle storielle sentimentali? Bene, io sono lo scrittore che sono grazie a De Amicis, fatevene una ragione". Era stato il padre a trasmettergli la passione, leggendogli da bambino le storie dell’autore di Cuore.

Per tutta la vita Yehoshua si è impegnato per una soluzione pacifica del conflitto fra ebrei e palestinesi in Israele. Coi colleghi e amici Amos Oz e David Grossman ha dato voce all’anima pacifista e progressista del suo paese, ma ha dovuto assistere al progressivo declino del sogno di pacificazione. Col tempo, come tanti altri, anche lui ha abbandonato la vecchia idea “due popoli, due Stati“, ipotesi divenuta impraticabile col radicarsi degli insediamenti ebraici nei territori palestinesi occupati. Non ha esitato, negli anni più recenti, a parlare apertamente di "apartheid" (come le maggiori organizzazioni per i diritti umani, da Human Rights Watch a Amnesty International fino all’israeliana B’Tselem) per definire la condizione dei palestinesi in Israele, ma non ha abbandonato la lotta o almeno la speranza, a questo punto di costruire uno stato binazionale e democratico. La stessa metafora del tunnel, nel suo romanzo omonimo del 2018, può essere considerata un viatico verso una difficile ma necessaria soluzione comune.

Agli ebrei chiedeva di "passare dalla concezione di uno stato ebraico all’idea di uno stato israeliano", agli arabi palestinesi di superare l’ossessione per quanto successo negli ultimi decenni, dopo la guerra del ’67. Ammoniva gli uni e gli altri sui rischi della troppa memoria: un eccesso di ricordi, diceva, può portare alla paralisi politica, fino a bloccare il corso della storia. Forse anche per questo il protagonista de Il tunnel è un ingegnere che avverte, senza farne un dramma, i primi segni della senilità proprio nella perdita della memoria. È questa complessa eredità – la fedeltà alla storia degli ebrei e allo stato di Israele, la ricerca di una pacificazione attraverso un impegno nuovo e diverso anche dei palestinesi, la fiducia nel dialogo fra le persone e le comunità – che Abraham Yehoshua lascia alla sua gente. Il tempo di dirà se sapranno farne tesoro.

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