Giovedì 25 Aprile 2024

Wilder voleva fare il reporter: nessuno è perfetto

Gli avventurosi anni Venti del regista: prima di Hollywood, insegue il sogno del giornalismo tra Vienna e Berlino. Con brillanti reportage

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di Matteo Massi

Un inviato speciale si aggira nell’Europa degli anni Venti. Si chiama Samuel Wilder, ma tutti lo chiamano Billie. È nato in Galizia nel 1906. Non quella Galizia che conosciamo ora ma quella che fu uno degli ultimi retaggi dell’Impero Austroungarico e che ora corrisponde all’incirca alla Polonia. Vuole fare il giornalista, ma inizia con i cruciverba. E parecchi anni dopo, quando per tutti sarà diventato Billy Wilder, re della commedia americana, dirà: "Quello di cui vado più fiero, non sono i premi, ma il fatto che il mio nome sia apparso due volte nel cruciverba del New York Times, una volta il 17 orizzontale e una volta il 21 verticale".

Ma il giovane Billie (pronunciato alla tedesca), con un diploma ginnasiale in tasca, non si accontenta di comporre domande per le parole crociate. Ha un sogno americano che, di certo, all’epoca non prevede che si realizzerà nel giro di qualche lustro, ma per altre vie. Perché lui è convinto di voler diventare un corrispondente estero. Ma per mantenersi si accontenta di fare il giornalista mal pagato, come racconterà sul finire dei suoi giorni, ma non ancora sul Sunset Boulevard, al regista Cameron Crowe. "Quello che sapevo è che non volevo studiare legge, così come invece avrebbe voluto mio padre".

Il papà di Billie si chiama Max, la mamma Eugenia: la famiglia è ebraica-ashkenazita e madrelingua yiddish. I genitori hanno un negozio di dolciumi a Sucha, in Galizia appunto, ma poi decidono di trasferirsi a Vienna. Nella capitale austriaca, il Dopoguerra della Grande Guerra, c’è un dibattito culturale ancora molto vivace. Lo stesso Wilder, nel 1963, probabilmente mentendo spudoratamente dirà che "nella stessa mattina ero capace di intervistare Sigmund Freud, Arthur Schnitzler e Richard Strauss". Non ci sono prove che in qualche modo confermino le parole di Wilder. C’è però un biglietto da visita che si porta appresso, con la scritta: Billie S. Wilder, qualifica reporter.

Ma il giovane Billie è uno che batte la strada e i caffè di Vienna, che si ambienta in fretta. E che per tirare a campare fa anche il ballerino in quelle sale da ballo d’inizio Novecento, all’Eden Hotel. Vitto e alloggio garantiti e lui riuscendo a tenere a freno con fatica qualche goccia di sudore che rischia di perlargli in maniera vistosa la fronte, fa fino in fondo il suo dovere. E lo racconta poi in uno spassoso feuilletton sul Die Bühne il 2 giugno del 1927, che viene riportato ora in Inviato speciale - Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre (edito da La Nave di Teseo). E poi in quella Vienna lì, così sospesa tra il glorioso passato e un futuro decisamente più incerto, ci sono i destini che s’incrociano: il suo e quello di Erich von Stroheim.

La prima volta accade nella primavera del 1929, Wilder la racconta su Der Querschnitt. Lo chiama solo Von nell’attacco del suo pezzo: "Inoltre – scrive – pronunciano Von più o meno come one (uno, nella traduzione italiana, ndr). Perché Erich von Stroheim viene chiamato così? Perché ogni casa di produzione può girare un solo film con lui, dopodiché fallisce". Racconta Stroheim, mito del grande schermo, come un modello da odiare. "Von Stroheim è un uomo povero – scrive ancora –. DeMille, Griffith e Lubitsch non sanno che farsene di tutto quello che guadagnano. Murnau si è comprato uno yacht e vuole passare un anno in crociera sull’Oceano Pacifico". Von Stroheim diventerà il suo maggiordomo, del Wilder regista però, ventuno anni dopo, sul Viale del tramonto.

L’incontro col cinema avverrà invece nel 1930, a Berlino, quando seguirà il jazzista Paul Whiteman. Ma il tempo europeo per Wilder sta per scadere. Nel 1933 Hitler va al potere e il 27enne Billie capisce subito che la sua vita, come quella della sua famiglia, è in pericolo in quell’Europa lì che si avvia spedita verso un’altra guerra. Lui, nel 1934, passando per la Francia, riesce a scappare e a raggiungere l’America. Ma non è quello il modo che aveva sognato per raggiungere gli Stati Uniti: l’incarico (ben pagato) da corrispondente estero fa parte ormai delle illusioni giovanili. La sua famiglia invece finirà ad Auschwitz. Nel frattempo è diventato Billy, il regista. Che farà collezione di Oscar e che come epitaffio sulla sua tomba sceglierà "Nessuno è perfetto". La frase finale di A qualcuno piace caldo.

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