Giovedì 18 Aprile 2024

Whitney Houston, favola triste di una leggenda

Arriva il biopic sulla cantante morta nel 2012. Il successo straordinario da predestinata, poi la caduta di una ragazza fragile

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di Andrea Spinelli

Los Angeles, interno giorno. Quell’11 febbraio di dieci anni fa sotto al pelo dell’acqua c’era forse un accenno di sorriso sul bel viso di Whitney Houston mentre attorno alla vasca da bagno nella Suite 434 del Beverly Hilton Hotel regnava lo sconcerto per una vita da sogno finita come una favola nera. D’altronde lei, la voce più amata da un’intera generazione, l’aveva ripetuto nelle interviste: "Io sono il mio più grande demone, il mio miglior amico o il mio peggior nemico". E qualcuno si sarà pur domandato se ad aprire la gabbia dorata in cui aveva trascorso i suoi 27 anni di hit-parade per lasciarla volare via era stato l’amico o il nemico. Un quesito lasciato tutto sommato insoluto da due importanti documentari usciti tra il 2017 e il 2018, Whitney: Can I Be Me di Nick Broomfield e Whitney Houston - Stella senza Cielo del premio Oscar Kevin MacDonald, che il biopic Whitney - Una voce diventata leggenda, appena arrivato nelle sale con la regia di Kasi Lemmons, torna a riproporre.

A volerlo, oltre alla famiglia, il novantenne Clive Davis, mitologico fondatore della Arista Records interpretato magistralmente nel film da Stanley Tucci, che l’aveva cresciuta come una figlia senza bisogno di scoprirne il talento, perché se tua madre è una gospel singer come Cissy Houston, tua cugina Dionne Warwick, e a tenerti a battesimo è stata Aretha Franklin, l’aura di predestinata non può togliertela nessuno.

Ed è su questa ineluttabilità di un destino già scritto che il film interpretato dall’inglese Naomi Ackie e sceneggiato di Anthony McCarten (già autore dello script del fortunatisimo Bohemian Rhapsody) punta la macchina da presa trasformando la Voce di perla di Newark nella vittima di un ingranaggio fatto di solitudine, infelicità, sensi di colpa, che, dopo una rovinosa discesa agli inferi, ha finito per stritolarla in una camera d’albergo alla vigilia dell’ennesimo rilancio televisivo.

Come la ragazzina timorata degli uomini e di Dio che nel 1985 aveva incantato il mondo cantando You give good love e Alla at once (chi se lo dimentica il bis chiesto nell’87 a Sanremo da un Ariston tutto in piedi ad applaudire), si fosse trasformata nella “junkie” dell’ultimo decennio, nell’accanita fumatrice di crack che a detta della cognata Tina Brown le avrebbe lasciato in bocca solo una dentiera da seimila dollari, rimane uno dei segreti meglio custoditi del pop.

Tutta colpa della depressione, dei sigari, del crack, della cocaina, s’è detto, ma anche delle insinuazioni sulla relazione con l’assistente Robyn Crawford fatte circolare dalla famiglia Brown gettando benzina sul fuoco di una bisessualità devastante per una ragazza cattolica con scoperte fragilità.

Illazioni a cui avrebbe dato mano forte pure l’ex marito Bobby Brown (interpretato al cinema da Ashton Sanders) nel libro di memorie The truth, the whole truth, and notghing but… dato alle stampe in forma precauzionale dall’editor Derrick Handspike come "un(authorized) biography". Il capitolo mancante della storia raccontata dall’ex consorte in perenne libertà provvisoria sarebbe arrivato nel 2015 con la scomparsa della figlia Bobbi Kristina Brown, a soli 22 anni, in circostanze praticamente analoghe a quelle della madre. Altra farfalla con le ali bruciate nella vicenda umana e artistica di una superstar incapace di conquistarsi, nella vita reale, qualcosa che somigli a un lieto fine.

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