di Silvio Danese
Un paio di decenni fa ripetere a memoria e scrivere correttamente il suo nome e cognome senza controllare era una sfida tra festivalieri: Apichatpong Weerasethakul. Thailandese, il suo sguardo misterico, sconcertante e attraente, su una storia d’amore riflessa negli occhi di una tigre aveva meritato nel 2004 il Premio della Giuria a Cannes per Tropical Malady. Nel 2010 vinse invece la Palma d’oro lasciando lo spettatore in balia delle apparizioni dei fantasmi di un anziano morente, nella cultura buddista di ritorni e apparizioni di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (presidente di giuria era Tim Burton).
Con questo viaggio sul fiume del tempo, con una star sempre “cool” e autoriale come Tilda Swinton, l’anno scorso ha ritirato a Cannes un altro Premio della Giuria. In trasferta a Bogotà a trovare la sorella, insonne stabile, per raggiungere un’amica archeologa appassionata di resti umani Tilda naviga con un pescatore di incerta identità a tempo di ricordi. La lentezza può sembrare esasperante, bisogna invece abbandonarsi come e più dei precedenti film perché è, come dire, il messaggio, una sorta di spessa ipnosi nella quale perdersi e ritrovarsi. Distribuito da Mubi e Academy Two.
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