Venerdì 19 Aprile 2024

Verdi eroe del futuro: trionfa la tele-opera

Chailly esalta il valore rivoluzionario della tragedia e una regia coraggiosa lo mette in scena. Con Salsi e Netrebko, le voci più belle di oggi

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di Elvio Giudici

Sempre ipermediatica, l’inaugurazione scaligera: figuriamoci adesso, con tutte le retoriche dell’evento modaiolo. Che forse è, ma non conta, davanti a spettacolo maiuscolo: protagonista ottimo massimo del quale, è per me Riccardo Chailly.

Macbeth capolavoro sperimentale: parere ormai assodato. Per varie ragioni musical-drammaturgiche: ma Chailly ha mostrato come nel colore orchestrale concepito a fini drammaturgici stia la vera rivoluzione verdiana, gravida di futuro teatrale. Direzione che ha creato un colore scuro, denso: eppure ovunque morbido, dai contorni avvolgenti e mai acuminati, cupo tenebrore che (complice anche un’agogica molto allargata ma giammai slentata, sì che la tensione narrativa non subisce alcuno iato) sprigiona qualcosa di mortifero, come lo srotolarsi delle spire d’un fascinoso, orrendo pitone. La concertazione calibratissima provvede poi a evidenziare non solo ogni piano sonoro ma soprattutto ognuno degli innumerevoli, sempre geniali impasti strumentali.

Se strepitosi sono stati l’episodio delle apparizioni dei futuri re; il sublime duetto Macbeth-Lady dopo l’uccisione di Duncano, che si prolunga nello stupendo arioso di Banco; i due colossali concertati; l’introduzione al sonnambulismo, già pieno straniamento novecentesco; lo scarnificato sgomento della morte di Macbeth: è in realtà l’opera tutta, a ricevere dall’orchestra una definizione che rende piena giustizia tanto al Verdi musicista quanto all’uomo di teatro capace di guardare in faccia Shakespeare.

E tuttavia, nel teatro musicale nessun direttore può ambire a un pieno risultato senza cast adeguato. Questo non è adeguato: è il migliore oggi ipotizzabile nell’universo mondo. Luca Salsi è portentoso; che canti da dio quasi non se ne fa accorgere, tanto è l’interesse sprigionato da ogni sua frase, parola, fonema: colore e accento dei quali, compongono via via un sensibilissimo encefalogramma psicologico nel quadro d’una recitazione di straordinaria intensità.

Di fronte ha la Lady di Anna Netrebko: per la quale le considerazioni sono del tutto sovrapponibili. Grande e stupenda voce, piegata dalla tecnica e dall’accento a plasmare un personaggio monumentale, animato da recitazione che raggiunge un insorpassabile momento nella vertiginosa scena del sonnambulismo, condotta su di uno stretto cornicione di grattacielo, a parecchi metri d’altezza: cosa che – come la danza a piedi scalzi – puoi chiedere solo alla sublime Anna.

Magnifici il Banco sontuoso di Ildar Abdrazakov, il Macduff di Francesco Meli (il migliore di cui abbia memoria), le ottime e tanto decisive parti di fianco della Dama di Chiara Isotton, del Medico di Andrea Pellegrini, del Malcolm di Ivan Rivas.

Lo spettacolo di Davide Livermore è pensato con un occhio di riguardo per la ripresa televisiva, ma di forte impatto anche in sala. Centrato su di un “ascensore del potere” (metafora semplice e perciò efficace di quel Grande Meccanismo da Jan Kott individuato quale implacabile schema dello Shakespeare politico, dove si sale con fatica e si ruzzola con facilità), che collega il mondo comune – dove le streghe sono popolane dotate di chiara visione – alle gelide stanze del potere.

Sul fondo, video continui creano una realtà distopica che riconosciamo come nostra contemporanea: allacciata in simbiosi perfetta alla condotta musicale. Fenomenale il coro Patria oppressa (col quale il nuovo direttore del coro, Alberto Malazzi, si conferma degnissimo erede del suo maestro Bruno Casoni), con l’idea del popolo comune, di noi tutti, ammassato dietro una grata; ottima pure quella d’un Macduff che subentra a Macbeth ma probabilmente non per il meglio, nonostante l’abbagliante chiarore finale che avvolge due ragazzi al proscenio getti un’utopistica speranza. Tra gli applausi, alcuni orfani di pizzi trine e falpalà l’hanno buato. Poverini.

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