Una stella in cerca di padre Ma senza pathos

Andrea

Martini

Senza dubbio è stata la prima star a colonizzare l’inconscio collettivo. Marilyn è un mito del Novecento e della celluloide è il supremo. I miti sfuggono alla cronaca per divenire naturale soggetto di narrazione. Joyce Carol Oates, già vent’anni fa, scrisse Blonde incrociando fantasia e realtà. Andrew Dominik ne ha fatto una versione per lo schermo riprendendone il filo: disavventure e avventure rilette attraverso i traumi dell’infanzia, quindi più Norma Jeane che Marilyn Monroe. Usando il bianco e nero per la messa in scena dell’intimità e il colore per la vita pubblica, il film compone, senza pathos, un quadro banalmente empatico. La Marylin di Blonde, interpretata con impegno da Ana de Armas è in costante ricerca di una figura maschile, sostitutiva di un padre inesistente, perennemente fantasmato: ogni uomo è per lei un daddy. Desiderosa di compiacere, ancor prima di piacere, è naturale vittima di disguidi amorosi, flirt mancati, incursioni predatorie. Del pulviscolo d’oro non rimane poco più di niente. Dominik sequestra lo spettatore per poco meno di tre ore (produce Netflix), solo per ricordargli che la diva soffrì di ciò che oggi chiameremmo bassa autostima. Troppo poco per occupare una casella del Concorso.

In Oltre il muro, film iraniano di Vahid D. Divar, un cieco, in procinto di togliersi la vita, s’accorge che nel suo appartamento si nasconde una donna ricercata dalla polizia. In un progressivo mutuo soccorso i due si renderanno conto fino a che punto siano uniti dal destino. Immagini spoglie e ritmo ansiogeno non bastano a sollevare il film da un’approssimazione che non sa farsi stile.

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