Una rivoluzione che continua

di Silvio Danese

Addio a Godard, ma la sua rivoluzione continua. L’opera è immensa e insieme filtrabile, esaltata, evitabile ed evitata, troppo difficile si dice, ovvero segnata da una differenza linguistica “contro“ l’illusione di realtà del cinema, mentre quel che conta in verità è il talento dei contenuti, la sua capacità di renderci consapevoli della menzogna dell’immaginario cercando nella critica l’umanesimo. Per la sua onesta e ostinata ricerca sul linguaggio (al cui addio, ironico, dedicò un film) il destino di Godard è stato, e forse sarà, quello riservato ai poeti che non riusciamo a leggere, perché prima di tutto dobbiamo cambiare gli occhiali, e non basta.

Godard come Mallarmé? Non solo. Il montaggio, in Godard (ma come in certi poeti), è un invito all’abbandono alla audiovisione, per purezza ed evidenza, da ri-vedere, a volte tra inciampi e ingenuità sotto i quali però c’è sempre una smisurata intelligenza e la malinconia dell’uomo che conosce la vanità. Le opere degli ultimi anni, quelle che stanno nel futuro, e tengono a distanza, dicono addio a quel futuro del cinema. Godard incominciò a sviluppare (e non si è più fermato) l’idea che l’indissolubile legame tra il film e la narrazione non esiste, non è possibile spiegare nulla, si può solo mostrare un accadere. E discute questa “rivoluzione“ proprio attraverso il film che stiamo vedendo. È un bel problema quando cerchiamo di afferrare il filo di una storia mentre questa ha scopi diversi e a volte opposti, si presenta incerta, si sviluppa a buchi e scatti, citazioni da libri, spezzoni tronchi di sinfonie e lieder, ma quel che importa a quella storia è in realtà "descrivere un insieme, il personaggio e contemporaneamente gli avvenimenti di cui fa parte... Voglio dire che non posso evitare che tutto esista contemporaneamente dall’interno e dall’esterno" (Godard). La sua fine... Si è spento, non è morto.