di Viviana
Ponchia
Né gialli né noir. Marron, come il tinello di Paolo Conte. Come Torino, "fatta di una materia diversa da quella del resto d’Italia". Quattro polizieschi piemontardi, il quinto in incubazione. La risposta del Nord al commissario Montalbano. Alessandro Baricco avrebbe voluto scriverli: "Fango e pioggia, schiene diritte, tristezza, amori disperati, humor impassibile, violenza sepolta, sogni poetici, anarchia". A Torino Corso Bramard e Vincenzo Arcadipane cercano di risolvere le loro ossessioni senza entrare mai nel salotto buono sul Po apparecchiato per i turisti. Davide Longo invece sta rintanato in montagna a scrivere ancora di loro, affiancati dall’irrequieta agente Isa Mancini.
La diagnosi definitiva?
"Sono tre borderline che per caso finiscono in polizia e si aggrappano al lavoro non tanto per amore di giustizia ma per tendenza compulsiva al completamento. Quando gli dai una cosa spezzettata devono per forza rimetterla assieme. Hanno sacrificato la vita, i rapporti emotivi a questa malattia. Che però è anche una forma di talento. Ecco, i miei libri ragionano su come i nostri talenti ci tengono a galla quando andiamo a fondo. E sul fatto che sono zattere su cui viaggiamo da soli. Difficile fare salire qualcuno".
Torino vi assomiglia. A quei tre, a lei.
"Questa città si è trasformata ma solo nei primi strati di pelle. Restano tratti profondi che la rendono marron e sono quelli di cui mi sono innamorato da provinciale che viveva a Carmagnola, a venti chilometri".
Steinbeck scriveva che una città è come un animale. Possiede un sistema nervoso, una testa, delle spalle e dei piedi. Anche un’anima. Qual è l’anima di Torino?
"Non ne ha una sola. La prima è razionale: un campo militare impostato dai romani e poi gestito da una dinastia di soldati. Però si tratta di un ordine di superficie che nasconde il marasma, infatti dal nulla compare sempre l’ elemento disturbante. Penso alla Mole, oggetto totalmente contrario all’idea di pragmatismo. O a via Pietro Micca che taglia in diagonale sbeffeggiando i grandi viali. In extremis esiste la possibilità di uno scarto".
L’altra anima?
"Una gentilezza e una cortesia molto francesi, spalmate come glassa dalla dinastia per togliere ruvidità. È una città elegante e composta, per certi versi bohémienne. Il detto del falso e cortese io lo leggo come un elemento positivo, l’idea che i sentimenti siano sempre mediati da una forma di raziocinio, non sbattuti in faccia. Non ha il suo valore nella sincerità, ma nella forma di civiltà del vivere insieme, che non prevede spontaneità. Per questo è pochissimo italiana e per questo mi piace".
Razionale, felicemente ipocrita. E poi?
"Razionale ma con una vena di follia profonda. Indomita. Ad Annibale si arresero tutti tranne i taurisci che si fecero sterminare: di qui i bugia nen, anche in questo caso interpretato male. Non sono pigri: resistono e col cavolo che li sposti. Città calda, non fredda. E primitiva. Il nome non c’entra con il toro ma con la parola "taur" che significava montagna. Quelli che l’hanno fondata venivano dal freddo e credo conservi questa caratteristica di città di vetta, non solo perché ne è circondata ma proprio perché è costruita con la pietra di montagna, perché i suoi fiumi è da lassù che vengono. Soprattutto la Dora. Il Po ha già viaggiato, è diventato quasi danubiano, marrone e verde morbido, dopo avere depositato ogni asprezza. La Dora resta grigia e metallica perché conserva intatti i minerali strappati al pendio. Il modo migliore per capire cosa sia Torino è seguire il suo corso. Svaniscono i quartieri, in pochi metri si passa da un respiro all’altro".
La storia della magia?
"La nobiltà si annoiava e aveva bisogno di qualche brivido, di diavoli e massoneria. In realtà è una città dalle radici profondamente pagane, una delle poche che nel cuore del potere, piazza Castello, ha solo una chiesetta messa di lato, per non disturbare i torinesi mangiapreti. E i suoi santi sono gente pragmatica, che ha fatto qualcosa, da Don Bosco al Cottolengo. Torino ama costruire".
Chi è riuscito a raccontarla meglio?
"Sicuramente Fruttero e Lucentini, penso a La Donna della domenica. Pavese nel racconto Tra donne sole. Anche Giordana ne La meglio gioventù. Non è una città facilissima da narrare, bisogna entrarci in risonanza".
Per Bramard e il suo socio è proprio casa.
"Quei due non sono individui sociali. Ma la forza di Torino è essere perfetta per gli isolati. Qui c’è spazio anche per chi non vuole partecipare, se non lanci segnali nessuno viene a cercarti. Città di montanari inurbati, come diceva Calvino. Per niente filosofica perché le risposte che dà alle grandi domande sono tutte fisiche: nascere, mangiare, riprodursi e morire. E nel frattempo cercare di dare meno disturbo possibile. Io lo trovo un modo fantastico di stare al mondo".