Un secolo dopo, l’eredità mancata dei due Pci

L’anima gramsciana del ’21 e quella togliattiana del ’44: perché dalle loro ceneri non è nato un vero partito socialdemocratico?

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di Francesco Ghidetti

"La nostalgia a posteriori verso il Pci assomiglia molto al rito fideistico di quelli che nell’antichità anelavano all’età dell’oro. Preferirei che si discutesse del perché dalle ceneri del Pci non è nato un serio partito socialdemocratico". Parole chiare, parole di Luciano Canfora, storico e accademico di chiara fama, direttore dei Quaderni di storia, comunista, come dice lui stesso, "non ortodosso né nostalgico". La domanda è fondamentale per districarsi in questo centenario della fondazione del Partito comunista italiano (in origine Partito comunista d’Italia) a Livorno il 21 gennaio 1921, caratterizzato da un diluvio di riflession. Ma soprattutto è essenziale fissare alcuni punti fermi. Il primo: esiste “una” storia del Pci o ce ne sono molte? Il secondo: perché il partito con più attenzione all’aspetto pedagogico della politica ("l’educazione delle masse") non ha lasciato qualcosa di forte? Perché si è limitato a un generico e velleitario processo riformatore? Perché lo sbocco è stato solo la nascita, dopo gli esperimenti del Pds e dei Ds, di un Partito democratico di cui, a quasi 14 anni dalla fondazione, si fa fatica a capire i contorni? Ripercorrere alcune tappe essenziali della storia ci può aiutare.

La fondazione del Partito comunista, come ci ricorda Paolo Franchi nel suo saggio in uscita per la Nave di Teseo (Il Pci e l’eredità di Turati), non fu una sorpresa o una svolta improvvisa. Il contesto di quell’anno è chiaro. Il 15 gennaio, al teatro Goldoni della città labronica, cominciano i lavori del XVII congresso del Psi. Il Paese è ormai in mano ai fascisti che stanno, vuoi con i manganelli vuoi con la politica, conquistando l’Italia. Tutti sanno che ci sarà una scissione: la sala del Teatro San Marco, sempre a Livorno e dove ufficialmente nascerà il Pcd’I sei giorni dopo, è già prenotata da tempo. L’esito dell’assise è chiaro: 15mila voti vanno ai riformisti di Turati; 100mila ai massimalisti di Serrati; 58mila ai comunisti. I quali, guidati da Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti e altri, daranno vita a un partito di "rivoluzionari di professione", che vuole "fare come in Russia", ancorato al mito dell’alleanza tra classe operaia e intellettuali, settario.

Qualcosa, e in questo sta il primo nodo della questione, di molto diverso dal partito immaginato e teorizzato da Togliatti nell’aprile del 1944, con la svolta di Salerno. Un partito che, secondo il Migliore, deve arrivare al governo dell’Italia non più attraverso un processo rivoluzionario, ma democraticamente. In comune, questi “due” partiti (quello del ’21 e quello del ‘44) hanno l’impegno politico come protagonista della vita di tutti i giorni, una sorta di "comunità di destino" in cui operare per raggiungere il potere.

La svolta togliattiana si avvale di un curriculum corposo: la lotta contro il nazifascismo. Alcune cifre, ricordate pochi giorni fa dallo storico Giovanni De Luna: nel 1926 nasce il Tribunale Speciale, l’imponente organo di repressione del regime fascista. Ci saranno 15.806 deferimenti; 12.330 persone andranno al confine; 160mila saranno gli ammoniti e i "vigilati speciali"; 4.596 i condannati. Di questi, circa i tre quarti sono comunisti. Il che vale anche per la lotta partigiana. Ufficialmente sono 232.481 i partigiani combattenti riconosciuti: il 50 per cento comunisti, il 20 per cento di Giustizia e libertà (gli eredi della gloriosa tradizione rosselliana), gli altri socialisti, repubblicani e democristiani.

Insomma, l’Italia liberata, comunque la si pensi, deve molto al Partito comunista e ai suoi militanti. Sulla base di questo patrimonio (non previsto né prevedibile nel ‘21), Togliatti avvia la trasformazione del vecchio Pcd’I. Che persegue con tenacia, la strada dell’”alfabetizzaione politica” delle masse. Nasce la militanza attiva e totalizzante. Si pensi alle feste dell’Unità (4.607 nel 1972, più di 7mila nel 1975, circa 8mila negli anni ’80) o all’evocativo "chilometro 22" della Via Appia a Roma, dove ha sede la scuola di partito delle Frattocchie, temi indagati dalla studiosa Anna Tonelli, recente autrice per Le Monnier di una biografia di Teresa Noce, idealtipo della militante comunista (Nome di battaglia Estella). Scuola di partito dismessa (fu venduta nel 2003 dagli allora Ds) e oggi irraggiungibile, elemento simbolico che la dice lunga sulla storia del fu Pci.

Così come la dice lunga, per chi individua nel Pd “l’erede” del Pci, il fatto che nel partito del Nazareno (guidato da Nicola Zingaretti e ispirato da Goffredo Bettini, entrambi figli della storia comunista, ma affollato di ex dc e senza nemmeno un erede della storia socialista) non ci siano più dirigenti di formazione gramsciana come D’Alema e Bersani, per tacere di molti altri.

Dunque, se lo spirito del ‘21 è ormai consegnato alla storia e ha pochi lasciti sul presente, altrettanto non si può dire del partito del ‘44. Un’eredità irrisolta e che, questo sì, ci riporta agli anni del primo dopoguerra, quando Lenin scrisse il Che fare?. Domanda irrisolta. Domanda cui, specie negli anni ’70, si pensò di dare risposta affermando che la vera socialdemocrazia stava nel Pci. Già, in quel Pci che, non fosse stato per il pungolo costante di socialisti, repubblicani e radicali (la "terza Italia"), non avrebbe messo mano alla legge sul divorzio, sull’aborto, sullo Statuto dei lavoratori o sui diritti degli omosessuali (vedi l’ostracismo verso Pasolini o Visconti). Tutti temi di libertà in cui il Pci fu decisivo. Ma, diciamolo senza alcuna vis polemica, trascinato per la giacca da un generoso popolo di militanti (ora svanito) deciso ad accendere la luce sulle tenebre che gravavano sulla nostra Italia.

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