Giovedì 25 Aprile 2024

Un racconto con echi felliniani

Silvio

Danese

Sorrentino, ritorno al Golfo. Ma non è una “sorrentinata“, nel caso di permanente scetticismo verso il talento discontinuo del Premio Oscar per La grande bellezza. Napoli parla, e canta, respira della verità misterica di Malaparte, contempla e accoglie la fine amara della giovinezza "ferita a morte" di La Capria, si avvita alle origini di un mito partenopeo, Diego Armando Maradona. Come una dichiarazione d’amore e dolore, di passato e futuro, È stata la mano di Dio si apre con una lunga, virtuosistica panoramica aerea dal mare alla costa e ritorno, palcoscenico dichiarato di commedia e dramma, le due parti segnate da un salto stilistico sensibile, ma motivato.

La commedia: la famiglia picaresca, iconografica, minata da faccende e squilibri (una Ranieri memorabile in un cast corale centrato) dell’adolescente Fabietto.

Il dramma: scoprire come a 16 anni continuare a vivere dopo la morte improvvisa dei genitori. Nel bene e nel male, tra spinosi, coinvolgenti passaggi di formazione, epifanie in eccesso e qualche finale di troppo, questa autobiografia dal fiato felliniano cerca una posizione tra Nuovo cinema Paradiso di Tornatore e Il posto delle fragole di Bergman, il primo per la dose cinematografica di coinvolgimento, il secondo per lo sguardo a distanza dell’autore.

Concorrenti di giornata, nientemenoche: Jane Campion, con un rarefatto melò western (1925) psicologico, The power of the dog, e Paul Taxi Driver Schrader, alle radici del complesso di colpa di Guantanamo, con The Card Counter.

Venezia 78, la competizione è aperta.

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