Giovedì 18 Aprile 2024

Un pittore matto sulle rive del Po

di Franco Basile

Lo chiamavano “il matto”, ma per lui vivere significava dipingere: Antonio Ligabue ha passato momenti davvero difficili, è entrato e uscito da istituti psichiatrici, ha patito fame e freddo, ha passato gran parte dell’esistenza sul Po, in baracche dove si infilava nella paglia per difendersi dal gelo, dove a volte si nutriva di carogne di animali. Arrivò però il momento in cui non doveva più barattare un dipinto con un piatto di minestra. Chi voleva un’opera doveva “tirare fuori i soldi”, bofonchiava mischiando un italiano sbilenco a espressioni dialettali. Ecco quindi avverarsi un sogno sempre cullato, quello di possedere un’auto condotta da un ossequioso autista, come aveva visto fare da bambino in Svizzera.

Lui riuscì a mettere insieme una Simca a tre marce e una Fiat 1400. Aveva due automobili, ma gli piacevano soprattutto le moto, tipo Guzzi, quelle rosse della Stradale. Non aveva la patente, non poteva guidare le auto ma le Guzzi sì. Indossò un giaccone nero foderato di pelle di pecora, infilò pantaloni con sbuffo e stivali fino al ginocchio. I suoi spostamenti si limitavano alle strade di Gualtieri inseguito da ragazzini vocianti. Diverso il discorso delle auto. Assunse un autista, che non trattenne molto. Non sopportava i rumori, gli dava fastidio persino chi tossiva. Fu così che Ligabue si rivolse a Sergio Terzi, un giovane del posto che un giorno si sarebbe dedicato alla pittura col nome di Nerone. A Terzi Ligabue raccontava molto di sé, soprattutto vantava le proprie capacità pittoriche. Era convinto di essere un grande e che un giorno tutti avrebbero parlato di lui.

Trattava il giovane con un po’ di prosopopea, la qual cosa rendeva l’atmosfera non proprio idilliaca. Per farlo tacere Nerone minacciava di buttare via le chiavi e di lasciarlo solo in macchina.

Tutto poi si sistemava.

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