Martedì 16 Aprile 2024

Totò, Clint e la censura nell'Italia perbenista

Dal Dopoguerra fino agli anni Settanta: per questioni politiche o comune senso del pudore i tagli alle scene dei divi nei classici del cinema

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Il cinema è sogno, il cinema è cultura, il cinema è libertà. Beh, non sempre. Non sempre è stato libertà. C’è sempre stato Edward Mani di Forbice ad attendere i film. Ovvero, la censura.

Un documentario, Cinecensura, curato da Maria Assunta Pimpinelli e montato da Stefano Landini, frutto della collaborazione fra Centro sperimentale di cinematografia e Cineteca nazionale, visibile gratuitamente su Vimeo, ci mostra una selezione di tagli operati dalla censura cinematografica italiana dal 1946 al 1969. In pratica, dal dopoguerra fino all’inizio degli anni ’70.

Sono soltanto 26 minuti, ma è chiarissimo che potrebbero essere molti di più. Ci si può fare un’idea di come abbia lavorato, per decenni, la censura. Nel cinema italiano, sono state colpite soprattutto immagini legate al cosiddetto "comune senso del pudore". E ovviamente, parevano oscene cose che oggi ci fanno sorridere. Ma ci sono anche frammenti di film che rivelano un’amarezza, una rabbia, una crudezza inaspettate.

La breve scena in cui l’anziano protagonista di 'Umberto D.' di Vittorio De Sica, quel vecchietto così mite e straziato dalla vita, chiama la sua padrona di casa ’puttana’; e la scena in cui, in ospedale, parla con l’unica anima gentile con lui, la domestica, che non sa di chi sia il figlio che porta in grembo. Nessun grande attore sfugge al destino di vedersi tagliare alcune scene: da Totò a Sophia Loren, da Lea Massari a Clint Eastwood, umiliato da Eli Wallach in una scena de 'Il buono, il brutto e il cattivo' di Sergio Leone, del 1966: Eastwood striscia, sulla sabbia, riarso, in cerca di un catino d’acqua che Wallach gli getta in aria.

Ma è una storia che parte da lontano, quella della censura nel nostro cinema. Già nel 1910 nacque in Italia un sistema di controllo delle pellicole affidato alle prefetture e alle questure.

La Commissione per la revisione cinematografica italiana nasce nel 1914. Sotto il fascismo il protagonista assoluto della politica cinematografica italiana, fu Luigi Freddi, quello che fece splendere Cinecittà e il Centro sperimentale di cinematografia, convinto sostenitore del ruolo della censura. Nel 1934, intanto, era stato fondato il Centro cattolico cinematografico, col compito di giudicare tutti i film proiettati in Italia, esprimendo un giudizio pastorale. Se il giudizio era negativo il film non poteva essere proiettato nei cinema parrocchiali. Le sale parrocchiali erano un terzo dell’intero circuito nazionale: un film condannato dal Centro cattolico cinematografico veniva condannato anche economicamente.

Giulio Andreotti, sottosegretario allo Spettacolo nel dopoguerra, promosse nel 1949 una legge sul cinema che finanziava il cinema italiano. Ma scrisse anche una lettera aperta, nella quale dice che 'Umberto D.' di Vittorio De Sica rende "un pessimo servizio alla sua patria" e che "in ogni caso i panni sporchi si lavano in casa".

Nel 1953 fu arrestato – per vilipendio delle forze armate – il più celebre critico italiano, Guido Aristarco, per aver recensito un soggetto, 'L’armata Sagapò', che raccontava vicende di soldati italiani in Grecia durante la seconda guerra mondiale. Soldati che andavano con prostitute greche, ma anche storie d’autentico amore tra soldati e donne greche. Aristarco finì in prigione. Anni dopo, nel 1991, raccontando una storia molto simile nel film Mediterraneo, Gabriele Salvatores vinse l’Oscar, e tutti ad applaudire. Per non parlare di 'Ultimo tango a Parigi', del 1972, di Bernardo Bertolucci, diventato il simbolo di ogni censura. Il film fu bloccato, le copie mandate al rogo, Bertolucci e il produttore del film condannati penalmente e privati dei diritti civili: poté essere proiettato di nuovo solo nel 1987.

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