Mercoledì 24 Aprile 2024

Tognazzi, il colonnello della commedia. Con lui l’Italia sapeva ancora ridere

Trent’anni fa se ne andava uno dei più grandi attori italiani. Donne, cucina, zingarate e ironia: nei suoi film i vizi e le virtù del nostro Paese

Migration

"Era un matriarca, ti allattava e ti cibava delle sue esperienze". "L’ho conosciuto a sette anni. Mi mancano i pranzi e le cene quando eravamo tutti insieme: una famiglia incasinata, una vera famiglia". "Non mi ha mai detto fai questo o fai quello. Parlava del suo lavoro senza dare consigli e si lasciava spiare quando recitava". "Per me era un enigma, avevo 18 anni quando morì. Solo dopo ogni cosa mi apparve chiara: era onesto, pieno di difetti, straordinario". Era mio padre. Ugo Tognazzi se n’è andato il 27 ottobre 1990, a 68 anni, stroncato da un ictus quand’era già minato dalla depressione. I suoi figli lo raccontano così. In ordine di età e apparizione: Ricky, Thomas, Gianmarco e Maria Sole. Tre madri diverse e Ugo. Un grandissimo attore. Uno dei quattro moschettieri della commedia all’italiana: lui, Sordi, Gassman e Manfredi. O i cinque colonnelli, aggiungendo Mastroianni.

È stato comico, grottesco, drammatico. Ha impersonato l’italiano imbroglione, bugiardo, femminaro. Ma anche l’eroe borghese, il commissario integerrimo o il magistrato votato all’impegno civile. L’ha fatto con immensa dedizione a un mestiere che definiva – scherzando non troppo – un hobby: "Solo in cucina mi sento io", diceva. Ha riempito lo spettacolo del varietà, la televisione, il cinema e il teatro. Era capace di portare sul palco Pirandello in francese come di deformare la faccia di gomma per strappare la risata al pubblico. Cremonese fino al midollo, aveva cominciato da ragioniere al salumificio Negroni.

Dopo la guerra abbandona il lavoro per trasferirsi a Milano: partecipa a una serata di filodrammatici e viene scritturato nella compagnia di Wanda Osiris. È la svolta. Nel ‘50 il primo film, l’anno dopo inizia il sodalizio con Raimondo Vianello che lo porterà – dal ‘54 al ‘59 – sul piccolo schermo con Un due tre. È una rivoluzione: la coppia smonta il cliché del buffo e della spalla, sintetizzato magistralmente da Billi e Riva prima, Chiari e Campanini poi.

Ugo ha una comicità popolare, Raimondo è l’humour inglese: si compendiano in una satira così ficcante che vengono licenziati in tronco dalla Rai per uno sketch sul presidente Gronchi. Poco male. Il cinema accoglie Tognazzi a braccia aperte: lavora con i maggiori registi in pellicole memorabili (moltissime) o dimenticabili (si contano sulle dita di una mano). Lo vogliono Scola, Monicelli, Comencini, Bertolucci, Risi, Salce, Ferreri, Lattuada, Zampa, Petri... Il fiore all’occhiello è il giudizio di Pasolini: "È l’attore più sensibile e intelligente che abbia mai diretto". Qualche titolo? Il federale, La voglia matta, Io la conoscevo bene, I mostri, Il vizietto (che non gli piacque: lo trovava volgare), Nell’anno del Signore, La terrazza, Romanzo popolare, La stanza del vescovo: occorre fermarsi qui, la filmografia tocca quota 140. Sbancò il botteghino interpretando il conte Mascetti in Amici miei con la sua ’supercazzola’, vinse la Palma d’oro nell’81 a Cannes per La tragedia di un uomo ridicolo, con l’amicissimo Ferreri girò La grande abbuffata in cui indossava panni che adorava: quelli del cuoco.

Il suo più grande piacere – oltre alle donne – era far da mangiare per i sodali che riuniva in serate interminabili, fra cibo e tennis, nel Villaggio Tognazzi a Torvajaica. Chi vinceva il torneo si portava a casa il trofeo dello Scolapasta d’oro. Suo vicino di casa era l’altro compagno di una vita: Vittorio Gassman. Condividevano la famiglia allargata e il male oscuro che li consumò lentamente. Tognazzi, come il mattatore, morì con addosso una tristezza inguaribile: il cinema l’aveva dimenticato in un angolo buio. "Lo chiamai per Ultimo minuto nell’87", racconta Pupi Avati. "Avevo un antico debito di gratitudine. Molti anni prima, lui famosissimo, aveva insistito per fare un mio film al posto di Villaggio che aveva snobbato il copione: fu un insuccesso e io mi sentivo in difetto. Cominciammo a frequentarci assiduamente, andavo con mia moglie a trovarlo a Torvajanica. Una sera, accompagnandomi al cancello, mormorò: voglio morire. Mi voltai di scatto, lui mi guardò e abbassò gli occhi tacendo". Le luci della ribalta si erano spente in quel preciso momento.

 

 

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro