Martedì 23 Aprile 2024

Tito, quel vicino scomodo mai rinnegato

Fratelli d’Italia vorrebbe revocare l’onorificenza concessa da Saragat nel 1969. Una figura complessa in bilico fra Occidente e blocco socialista

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di Lorenzo Guadagnucci

Quando Tito arrivò in Italia nell’agosto del 1944, con un volo dall’isola di Lissa a Caserta, la guerra nel Balcani era in pieno svolgimento ma già si intravedeva la capitolazione tedesca: l’incontro con lo stato maggiore degli Alleati serviva a definire lo status dela resistenza jugoslava e ad accelerare la sconfitta di Hitler. Tito chiedeva forniture militari per il suo esercito partigiano e si proponeva, giocoforza, come possibile leader della Jugoslavia del futuro, in alternativa alla monarchia dei Karađorđević e ai nazionalisti di Draža Mihailović, ormai reputati poco affidabili. Sabato 12 agosto – nella stessa giornata della strage di Sant’Anna di Stazzema – Tito incontrò Winston Churchill a Villa Rivolta, a Napoli, sulle colline di Posillipo. Era un incontro politicamente decisivo. Tito, incurante dell’alta temperatura, si presentò con un’uniforme appena uscita di sartoria (aveva un debole per le uniformi): giacca grigio attillata, banda scarlatta lungo i pantaloni, galloni d’oro e i gradi di maresciallo, oltre che gli stivaloni ai piedi; Churchill, più pratico e modesto, indossava un abito bianco di lino, come al solito piuttosto trasandato. Pare che i due, nonostante l’inevitabile diffidenza – uno comunista, l’altro inflessibile anticomunista, tutti e due con altissima stima di sé – alla fine si intesero e quasi simpatizzarono; fatto sta che Tito ottenne il via libera agli aiuti militari, in cambio di vaghe promesse sull’autonomia della futura Jugoslavia dall’Unione sovietica. Da quell’estate la figura di Tito si stagliò con forza nell’area balcanica. Anche a guerra finita.

La Jugoslavia fu l’unico Paese europeo a liberarsi da solo dall’occupazione nazista, senza l’intervento di truppe alleate, ed ebbe l’unico movimento partigiano così forte da poter costituire un vero esercito. Perciò il mito di Tito, la sua figura di combattente e leader nazionale, anzi plurinazionale, vista la natura del paese, cominciò a formarsi nei mesi di guerra. Ma fu il Tito politico, il presidente della nuova Jugoslavia, a marcare la storia europea del dopoguerra. La clamorosa rottura con Stalin e con il blocco sovietico, resa nota nel marzo 1948, non spostò la "cortina di ferro che da Trieste a Stettino" era "scesa sul continente", secondo la celebre allocuzione del solito Churchill, ma certo la rese più porosa.

Nacque allora il “titismo”, cioè il socialismo nazionale, sganciato da Mosca anche nei metodi: niente piani quinquennali e accentramento, ma gestione decentrata dell’economia e del potere, nonché relazioni diplomatiche e anche industriali, commerciali, perfino turistiche con l’occidente. La Jugoslavia di Tito cominciò così a galleggiare fra i due mondi: non rinnegava il socialismo, ma rivendicava la propria indipendenza, e l’occidente assecondava di buon grado quest’anomalo paese che aveva scelto di fare da cuscinetto fra i due blocchi.

Sul piano interno, con una serie di riforme avviate negli anni Sessanta, la Jugoslavia cominciò a rinnovare il suo sistema economico e cominciò a sperimentare l’autogestione in piccole e grandi imprese, un progetto che suscitò una certa attenzione anche in occidente. Sul piano internazionale, Tito fu protagonista, con l’indiano Nehru e l’egiziano Nasser del movimento dei paesi non allineati, inizialmente 25 stati, che portò la voce “diversa“ dei Sud del mondo nel clima incandescente della guerra fredda; nel 1968, quando i tank sovietici soffocarono la “primavera di Praga”, la protesta di Tito si levò altissima, suscitando il plauso delle cancellerie occidentali.

A fare da sfondo a tutto questo, c’erano alcuni nodi irrisolti relativi alla guerra e all’immediato dopo guerra. I 40 giorni di Trieste, ossia l’occupazione della città da parte dell’esercito jugoslavo, con la repressione attuata contro gli avversari politici e la tragedia degli infoibati, e più avanti l’esodo degli italiani da Istria e Dalmazia, avevano lasciato scorie indelebili, come la brutale eliminazione a guerra finita di migliaia di “domobranci”, i combattenti slavi collaborazionisti dei tedeschi.

Dall’altra parte, del resto, Belgrado reclamava dall’Italia la consegna dei generali responsabili di numerosi eccidi sulla popolazione locale nei mesi dell’occupazione. La realpolitik, come noto, ebbe la meglio, e si preferì non scoperchiare il pentolone ribollente di rancori e legittime aspettative di giustizia, confidando nella funzione lenitiva dello scorrere del tempo.

L’Italia si trovò insomma ad avere al confine orientale un vicino scomodo ma utile all’intero occidente, un “uomo forte“ evocatore di grandi sofferenze e ingiustizie e tuttavia statista di rango sulla scena internazionale. Tito ebbe buon gioco a farsi garante di stabilità e spirito di collaborazione. Saragat certificò il suo status. La Jugoslavia del maresciallo era un paese diverso da quelli del Patto di Varsavia: più aperto, più tollerante, anche più pluralista, per quanto non derogò mai dal principio del partito unico; il pluralismo, dunque, si manifestò principalmente con la ripresa di toni nazionalisti in seno alle repubbliche federate. E cominciò così, probabilmente, la disgregazione della Jugoslavia, che non sopravvisse, se non per pochi, tubolenti anni, alla morte del suo indiscusso leader, il vanitoso maresciallo Tito.

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