Supereroe del West, John Wayne cavalca ancora

Ecco i segreti del Duke. Diceva: "Il cinema non è arte, ma intrattenimento. La gente vuole divertirsi, e io gli do storie semplici"

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di Giovanni Bogani

Duro. Spavaldo. Sicuro di sé. Essenziale: di poche parole, contano i fatti. Scabro, roccioso. Attaccabrighe. Macho. Conservatore, reazionario, per alcuni anche qualcosa di più. Ma leale. Sempre schierato contro tutti i prepotenti. In una parola, John Wayne. Per molti, è stato l’America. Per altri, ancora più profondamente, John Wayne è stato il Cinema. Il cinema hollywoodiano dei grandi spazi, il cinema degli eroi. Altri erano l’eleganza, l’ironia: come Cary Grant. O il tormento, come Montgomery Clift. Il sex appeal, sfrontato – James Dean – o maestoso, imponente: Marlon Brando. Ma nessuno, quanto lui, è stato capace di rappresentare il cinema, la sua forza, il suo palpitare, il suo vivere di storie, di spazi, di grandi emozioni, di eroi. A John Wayne ha dedicato un libro Anton Giulio Mancino. Il volume John Wayne (Gremese) sono 190 pagine di flash, racconti, sguardi dentro la vicenda di un attore-mito. Un attore che non amava le complicazioni, le sfumature, i chiaroscuri: "Se una cosa non è bianca o nera, che vada all’inferno!", diceva.

Che cosa scopriamo, grazie al libro? Beh, intanto che il John Wayne che vedevamo sullo schermo non era diverso dal John Wayne nella vita, o viceversa. "A un regista chiedo solo quale cappello indossare e da quale porta entrare", diceva. Scopriamo che amava indossare, nei film, le sue armi e i suoi vestiti: un gilet di pelle marrone, gli stivali sotto i pantaloni, una fondina per la pistola, e la cintura con la fibbia che gli aveva regalato il regista Howard Hawks nel 1948, dopo che aveva girato Il fiume rosso.

Troviamo conferma che non attribuiva ai suoi film, in generale, un grande valore d’arte: "Ho fatto più filmacci di chiunque altro in questo mestiere", diceva. Diffidava dell’arte; per lui il cinema era intrattenimento: "Nei miei film cerco di ricordare che la gente spende i propri soldi per divertirsi. Perciò mi piace offrire loro cose semplici".

Un uomo semplice, dalle idee chiarissime. Che amava lavorare con le stesse persone, quelle di cui si fidava: registi come John Ford e Howard Hawks, ma anche sceneggiatori come James Edward Grant. E operatori, musicisti, persino stuntmen che diventavano parte del suo universo, come Yakima Canutt che gli fece da controfigura per decine di film e divenne il suo più prezioso collaboratore.

È un mondo molto chiaro, quello dei suoi film. Western e film di guerra o di avventura. John Wayne aveva bisogno di situazioni estreme, in cui si rendevano indispensabili decisioni immediate, la forza della volontà, il bisogno di agire. Liberava città e villaggi dai mascalzoni, si prendeva cura di donne e bambini, proteggeva gli indifesi. Era un supereroe in carne e ossa.

Che cosa scopriamo, ancora? John Wayne non è stato sempre John Wayne. Non soltanto perché nacque col nome di Marion Michael Morrison e crebbe nella miseria più nera, in un ranch accanto al nulla del deserto Mojave. Ma perché, anche quando si affacciò al cinema, non lo fece propriamente con l’allure dell’eroe. Attrezzista un po’ pasticcione, era poco più che una comprasa quando nel 1930 John Ford consigliò all’amico Raoul Walsh di prendere quel ragazzone come protagonista per il western Il grande sentiero. Certo, Gary Cooper sarebbe stato preferibile, ma costava troppo: e Wayne si metteva sotto contratto per un tozzo di pane. Di lì a poco seguì Ombre rosse (Ford, ’39). Il resto è storia, storia del cinema.

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