Martedì 23 Aprile 2024

Stones: per Charlie la linguaccia si tinge di nero

In onore dell’amico batterista, Jagger e compagni tolgono il classico rosso al loro logo-icona. Ricordando “Paint it Black“

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di Chiara Di Clemente

"Voglio che tutto diventi nero: vedo una porta rossa e voglio che venga dipinta di nero, guardo dentro di me e vedo che il mio cuore è nero. Mai più nessun colore: voglio che tutto sia nero, nero come la notte, nero come il carbone, così svanirò e non dovrò affrontare la realtà. Voglio vedere il sole uscire fuori dal cielo e voglio che sia nero. Nero nero nero. Yeah". È il 1966: Bill Wyman suona l’Hammond durante una sessione di registrazione, Charlie Watts prende ad accompagnarlo con la batteria. Brian Jones – che in quel periodo condivideva con George Harrison la passione per la musica indiana e l’arte di Ravi Shankar – aggiunge un giro di sitar, Keith Richards la chitarra acustica, poi quella elettrica. Mick Jagger compone il testo: parla di nero, della voglia del bisogno della rabbia di cancellare il dolore, se stessi, dipingendo il mondo di nero.

Fu così – più o meno – che nacque uno dei successi più immensi dei Rolling Stones, Paint it Black: nella forma passata alla storia, il brano si apre con la perturbante malinconia del sitar, ma è la batteria di Charlie Watts a scandire l’inizio e – gradino per gradino, passo su passo – a condurre perentoria l’implicabile discesa nel buio del cuore di Mick.

Dipinto di nero: per il tour Usa al debutto il 26 settembre a St.Louis, il primo che dovranno affrontare senza il vecchio Charlie a sorreggerli alle spalle, i tre superstiti della band Jagger, Richards e Wood hanno deciso di dipingere di nero il logo rosso simbolo unico e imprescindibile dei Rolling Stones. Il disegno delle carnose labbra aperte a mostrare una grande lingua come esplicito richiamo sessuale e antieroico sberleffo, venne realizzato nel 1970, quando il management degli Stones commissionò al Royal College of Art di Londra un poster per il tour europeo di quell’anno. Fu il comitato direttivo del college a raccomandare John Pasche, allora venticinquenne, che inventò il “Tongue and Lip“, il logo che sarebbe stato incluso nel design dei dischi successivi della band, a partire dalla copertina interna dell’edizione americana dell’album Sticky Fingers, 1971.

La storia del rock è piena di gruppi ai quali è venuto a mancare all’improvviso uno dei membri fondatori, se non il leader: dinnanzi alla tragedia alcuni si sciolgono e ricominciano ex novo (Joy DivisionNew Order, Nirvana Foo Fighters), altri pare finiscano col tempo per rimuovere le grandi assenze (Doors, Who, Led Zeppelin). Altri ancora inscenano un post-carriera di tributi continui: si pensi ai Queen, dal concerto del ’92 per Freddie Mercury col Padre Nostro di Bowie, al film da Oscar del 2019. Gli omaggi a Syd Barrett dei Pink Floyd sono misteri racchiusi più nei cuori dei fan (e degli imperscrutabili musicisti) che nelle cronache dei concerti; l’omaggio di Springsteen a Clarence Clemons è invece un gioioso lunghissimo rito celebrato sul palco col figlio di Big Man in ogni show con la E Street.

Quando nel ’69 gli Stones persero Brian Jones, Mick Jagger volle onorarlo nel concerto kolossal del 5 luglio ad Hyde Park, 250mila persone, recitando i versi di Percy Bysshe Shelley ("Pace! Pace! Egli non è morto, egli non sta dormendo, si è svegliato dal sonno della vita") e liberando in volo migliaia di farfalle bianche, molte delle quali però mancarono allo show essendo già passate – come la farfalla Jones – nell’aldilà, stipate dentro scatoloni fino al momento clou, soffocate dal caldo.

Oggi, in un’epoca in cui tutto scorre velocissimo, e il tributo alla rockstar scomparsa si riassume in una messe di r.i.p. (rest in peace, riposi in pace) sui social, qualche cuoricino, persino qualche paradossale inconsapevole “mi piace“ (uhmmm, mi piace che sia morto Charlie Watts), e poi insomma fine lì, la scelta di un tributo che sarà duraturo – il logo nero accompagnerà sui megaschermi il tour di Jagger & C, e sarà sul merchandising – e che soprattutto appare fortemente, intimamente simbolico, ha una sua forza particolare.

Charlie Watts, scomparso il 24 agosto scorso a 80 anni, ha passato la sua vita da Stones elegantissimo, col sorriso sornione di chi la sa lunga ma non se la tira, con autoironica flemma inscalfibile. Velata della giusta aura di tristezza, la linguaccia nera risplende di una sorta di sottile “ironia“ british: nello sberleffo, di una sua eleganza. Pensata per Charlie, si direbbe. Per farlo continuare a sorridere.

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