Mercoledì 24 Aprile 2024

Spike Lee fa la cosa strana: sesso e violenza

“Titane“ è un film che divide: un coraggioso urlo di libertà o la copia dei cliché di Cronenberg? I migliori Farhadi e Hamaguchi

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di Andrea Martini

Se la giuria voleva stupire, come spesso accade, possiamo dire che vi è riuscita. Una Palma d’Oro così inaspettata non si aveva da tempo. Diciamo che forse quella che oggi sembra una scelta eccentrica, se non offensiva, andrà verificata tra qualche tempo. Il Palmarès è stato comunque contrastato come dimostra un doppio ex aequo.

Titane di Julia Ducorunau incuriosisce almeno per l’ostinata voglia di non fermarsi davanti a nessun confine, di gusto, di violenza, di perversa fantasia. Sicuramente vanta a ragione la fama di autrice postcronenberghiana, capace di fare interagire già catalogate mutazioni fisiche con aggiornate trasformazioni corporali di genere. Brutalità delle sofferenze inflitte, gravidanze metalliche, violenze insostenibili, sono solo parzialmente giustificate dalle riflessioni sui cambiamenti di genere. Resta da decidere se Titane sia più urlo sull’amore come vorrebbe l’autrice o compiaciuto viaggio nella chincaglieria di un filone duro a morire come suggeriscono i detrattori.

Il Gran premio della Giuria ha accomunato A Hero, valore sicuro, al sorprendente Compartiment n° 6. Asghar Farhadi conferma la predilezione per la messa in scena delle infernali spirali che avvolgono chi è preso di mira dalla sorte e attraverso le peripezie di un povero in carcere per debiti racconta un Iran di provincia in cui i social media s’innestano su radicate consuetudini sociali con effetti perversi. Il finlandese Juho Kuosmanen firma un road movie ferroviario che unisce nella promiscuità di due cuccette una giovane archeologa finlandese entusiasta e un minatore russo dai modi spicci: paure e speranze di due cuori dai battiti inizialmente opposti.

Non è un premio scandaloso quello a Leos Carax, miglior regia per il musical tenebroso Annette, ma che lo si sia considerato doveroso, trattandosi del figlio prodigo del cinema francese, non fa onore. Più che centrata la Palma per la miglior sceneggiatura consegnata a Ryusuke Hamaguchi sorprendente esploratore dell’animo femminile, moderno epigono di Naruse, che in Drive My Car dispiega tre ore di pura grazia cinematografica per raccontare con invidiabile lievità il sentimento del lutto.

Meno accettabile per la sproporzione dei valori il premio della Giuria condiviso tra Apichatpong Weerasetkakul che in Memoria abbandonato il partito preso dell’onirismo, con la consueta vertiginosa lentezza dipana per la prima volta l’empirica vicenda di una botanica che lamenta un sonno disturbato da un misterioso rumore e l’israeliano Nadav Lapid che in A’berech

mette in scena un regista quarantenne in piena crisi deciso a gridare il suo dolore.

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