
Chiara Francini, 45 anni, è nata a Firenze ed è cresciuta a Campi Bisenzio. È attrice, scrittrice e conduttrice televisiva
Firenze, 23 giugno 2025 – “Rimaniamo sempre ciò che si è mangiato da bambini: io ho mangiato la schiacciata con la mortadella, il pane con l’olio e la sbriciolona”. Ne è convinta Chiara Francini (45 anni), attrice, scrittrice e conduttrice tv, nata a Firenze e cresciuta a Campi Bisenzio (“il contado di Firenze”, sottolinea) che nel nuovo libro, ‘Le querce non fanno limoni’ (Rizzoli) racconta cinquant’anni di storia italiana, tra la Seconda guerra mondiale e gli anni di piombo attraverso Delia, ex partigiana che, perdute le illusioni e perduto l’amore, nel luogo dove il destino e il suo futuro si sono compiuti, a Campi Bisenzio, crea un rifugio, uno spazio di condivisione attorno a cui gravitano personaggi che intrecciano i loro destini, condividono memoria, ideali e aspirazioni. “Questo romanzo è un atto d’amore nei confronti di Firenze e di Campi perché quello che sono lo devo a Firenze e Campi” conferma l’attrice.
Chiara, assomiglia alla sua eroina Delia?
“Vorrei aspirare a Delia. Che, diciamolo non è la classica eroina. Delia resiste per tutta la vita al disincanto, alla vergogna che è il primo mantello che mettono addosso a una donna”.
In che senso?
“La vergogna non è mai soltanto un’esperienza personale, è un sistema di manipolazione collettivo, un’arma istituzionalizzata, volta a controllare gli individui, ma soprattutto le donne, perché a differenza del senso di colpa che ha a che fare con ciò che si fa, la vergogna ha a che fare con ciò che si è. Delia è cresciuta in una famiglia borghese ma grazie al suo spirito di osservazione ha potuto ampliare le sue vedute, ha avuto il coraggio di fare le scelte giuste. Ha seguito la sua concezione di giustezza e si è fatta partigiana. È una donna estremamente consapevole che la vita è fatta anche di dolore, una concezione che solo noi donne conosciamo: siamo abituate a sanguinare una volta il mese fin da bambine”.
Si rivede in Delia?
“Provo a fare del mio meglio, cerco di restare fedele a me stessa anche se sono una quercia nata in un giardino di limoni. No, non sono incline ai compromessi”.
Da che famiglia proviene?
“Sono cresciuta alle case Fanfani di Campi con i nonni materni, Danilo e Orlanda, l’Orlanda furiosa. Sono figlia unica e sono stata una bimba amata: mamma era segretaria, babbo lavorava alle poste e come secondo lavoro faceva l’istruttore di scuola guida. Ho trascorso un’infanzia profondamente felice anche se il mutuo imperversava”.
Come ha trascorso l’infanzia?
“I miei compagni di giochi erano i vecchietti della zona. Poi ho frequentato la chiesa di Santa Maria dove ho conosciuto il mio primo fidanzato. Ci si divideva tra parrocchia e casa del popolo, quella liturgia tutta toscana”.
E le vacanze?
“Mai fatto vacanze sulla neve o al mare. La prima con le amiche a 18 anni a Riccione. D’estate andavamo a Roma, la famiglia del babbo era originaria di lì. L’estate a Campi la trascorrevo alla Festa dell’Unità”.
È cresciuta in una famiglia comunista?
“Di sinistra, come tante famiglie toscane dell’epoca. Era la sinistra che lavorava nelle cucine delle case del popolo, quella che conosceva la gente e sapeva riconoscerne i dolori. Perché senza dolore non c’è lotta e senza lotta non c’è sinistra”.
Oggi c’è quella sinistra?
“Bisognerebbe tornare alle pentole sul fuoco, a preparare la pastasciutta. Ma se ti allontani dalla gente...”.
Mai pensato di fare politica?
“Morirei dopo due giorni. Ma in fondo questo ultimo libro è un romanzo politico. Fare politica è un atto di fede, il politico è generoso e altruista perché prima di avvicinarsi alla politica si deve avvicinare agli ideali”.
Nemmeno a scuola?
“Non sono stata una studentessa politicizzata. Non indossavo magliette con Che Guevara ma alle manifestazioni andavo. Perché come mi hanno insegnato non serve l’abito ma l’anima per fare politica. Io sono cresciuta con un certo tipo di ideali, quelli per cui la politica la si fa anche solo scegliendo come stare al mondo”.
I ricordi della scuola?
“Anni belli e formativi. Alle medie capitai nella sezione di tedesco e poi l’unico liceo classico in cui lo si insegnava era il Dante, la scuola dell’alta borghesia fiorentina. In classe eravamo in tanti ad arrivare dalla provincia, avvolti in un bolo di lana. Sono stati anni di duro studio durante i quali ho intrecciato delle amicizie che ancora coltivo. Tutto ciò che sono oggi lo devo a quegli anni che culturalmente mi hanno forgiato molto. Il professor Conti diceva: ‘Non esiste la vita bella perché è sempre bella’. E aveva ragione”.
Il teatro quando è entrato nella sua vita?
“Dopo la laurea ho iniziato a frequentare il Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino, c’era Barbara Nativi che mi ha insegnato ad avere fame, a nutrirmi di questa fame. Quando poi mi hanno preso al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, dove fortunatamente avevo un appoggio, ho capito che sarebbe stata dura. Mio padre mi diceva sempre che si possono inseguire i sogni solo se ti sfamano”.
E la scrittura che ruolo ha nella sua vita?
“Quando ho scritto il primo romanzo in realtà non avevo cose già scritte nel cassetto. La storia è piaciuta, il libro ha riscosso un grande successo e ho continuato. Scrivere mi dà gioia, non ho mai avuto il blocco dello scrittore. Scrivere mi ha messo di fronte alla realtà di chi sono realmente, mi ha fatto capire di essere libera perché liberata”.
Tra la recitazione e la scrittura che preferisce?
“Sono donna, posso fare tutto”.