Sparò a Togliatti e l’Italia rischiò la guerra civile

Antonio Pallante è morto a 99 anni: nel 1948 l’attentato al segretario del Partito Comunista. Poi Bartali vinse il Tour e pacificò il Paese

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di Sandro

Rogari

Non so per quale motivo la scomparsa di Antonio Pallante, che risale al 6 luglio scorso, sia stata mantenuta segreta fino ad oggi. Forse la famiglia ha preferito seguire le orme di quella riservatezza che ha caratterizzato la vita dell’attentatore di Palmiro Togliatti fin dal 1953, quando è stato scarcerato. Quando è morto stava per compiere 99 anni e da quasi settant’anni era sceso nell’ombra. Eppure avrebbe potuto divenire protagonista della storia nazionale fino a modificarne il corso. Perché quell’attentato al segretario del Pci, all’uscita secondaria di Montecitorio di via della Missione, in compagnia di Nilde Iotti, il 14 luglio 1948, avrebbe potuto scatenare la guerra civile. Non la scatenò per tante ragioni.

Prima di tutto perché Togliatti, colpito da tre proiettili, operato dal massimo chirurgo dell’epoca, Pietro Valdoni, si riprese rapidamente. Poi perché lo stesso Togliatti, appena riacquistata lucidità, invitò i dirigenti del suo partito, Longo in testa, alla calma. Visto il decorso della guerra civile in Grecia, scatenare una insurrezione avrebbe implicato la sconfitta certa dei rivoltosi e la messa fuori legge del partito comunista. Tanto più dopo la grande vittoria incassata dalla Dc il 18 aprile precedente.

Ma è indubbio che un buon contributo a polarizzare l’attenzione degli italiani sui successi italici e a rasserenare gli animi la dette Gino Bartali che il 15 luglio vinse la tappa Cannes-Besançon del giro di Francia battendo il mito del ciclismo francese, Louison Bobet.

Pare ci fosse stata addirittura una telefonata di De Gasperi al Ginettaccio nazionale, in partenza da Cannes, per rappresentargli la necessità "nazionale" della affermazione italiana. E Bartali vince. E vince ancora il giorno dopo e ancora, fino ad aggiudicarsi il Tour. Bartali divenne eroe nazionale e salvatore della patria, ricevuto da Einaudi al Quirinale e da Pio XII in Vaticano. Era l’Italia cattolica e moderata che vinceva, per la seconda volta, contro i "rossi". Si ripeteva il 18 aprile.

Intanto i moti di piazza che erano dilagati avevano provocato almeno trenta morti fra manifestanti e forze dell’ordine, mentre la stampa comunista montava il mito della congiura dell’imperialismo americano, della Cia e della mafia: Pallante veniva da Randazzo. Niente di tutto ciò.

Pallante era un solitario che si era convinto che Togliatti, agente di Stalin in Italia, fosse il massimo pericolo per il paese. In completa solitudine, si fece dare pochi soldi dal padre per comprare a Catania un revolver, ferrovecchio di inizio secolo, con il quale programmò di sparare a Togliatti. Se non fosse stata una vecchia pistola a tamburo con pallottole di scarsa qualità, Togliatti ci avrebbe rimesso la pelle. E forse l’Italia sarebbe piombata nella guerra civile.

In realtà, Pallante fece tutto da solo, profondamente convinto del suo gesto, come dimostrano le lettere che scrisse da Regina Coeli, mai pentito dell’attentato e dispiaciuto solo dei molti poliziotti che perirono negli scontri di piazza.

Fu lo stesso Togliatti, mesi dopo, a contraddire il mito della congiura imperial capitalista costruito dall’Unità, dicendo che non c’era alcuna evidenza che Pallante fosse l’emissario di qualche organizzazione interna o esterna al paese. In realtà, non si comprendono le conseguenze che ebbe e che avrebbe potuto avere l’attentato senza calarsi nel clima dell’epoca. Eravamo a poche settimane dalla clamorosa sconfitta delle sinistre alle elezioni politiche del 18 aprile per la prima legislatura repubblicana. Era una sconfitta ancora non metabolizzata e l’attentato a Togliatti poteva divenire il detonatore della rivincita.

Di Vittorio pensò bene di proclamare lo sciopero generale con mossa utile per riassorbire e regolare la protesta. Sulla proclamazione dello sciopero si consumò l’ultima crisi con la componente cattolica del sindacato, guidata da Giulio Pastore, che prese la palla al balzo per abbandonare la Cgil unitaria e fondare prima la Libera Cgil e poi la Cisl.

Nell’immaginario collettivo di quella Italia spaccata e manichea il bene si contrapponeva al male, senza sfumature. Era ben difficile ragionare con pacatezza. E vinse il bene. L’Italia aveva fatto la scelta di campo.

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