Martedì 23 Aprile 2024

Siamo un popolo di sportivi. Anzi, di tifosi

Dal pallone col bracciale al culto per il calcio e gli eroi del ciclismo e non solo. Un termine preso dalla medicina, ma è quasi una religione

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di Lorenzo Guadagnucci

Tutto cominciò con un grido: "Molla Buni!". Romolo Buni era un ciclista e nel marzo 1894 sfidò nientemeno che Buffalo Bill, in un duello bicicletta-cavallo passato alla storia del romanzo popolare, quello scritto non sulle pagine di un libro, ma lungo le strade e nelle piazze della passione sportiva. "Molla Buni!" era il motto d’incitamento della folla per il “piccolo diavolo nero“ del pedale ma si passò presto a usarlo in tutt’altri contesti: "Si grida “molla Buni“ – riferisce un cronista del tempo – al merciaiuolo che grida per strada la sua mercanzia, “molla Buni“ all’uomo affaccendato che cammini lesto, alla servetta frettolosa che va a fare la spesa..."

Erano i prodromi del tifo, inteso come tifo sportivo, un fenomeno oggi pressoché universale, ma che solo in Italia si chiama così, con un vocabolo che deriva dal greco e indica un morbo che tanta rovinosa parte ha avuto nella storia d’Europa e dell’intera umanità. All’inizio, negli anni a cavallo del secolo, di fronte alle folle appassionate che urlavano ai ciclisti in corsa o esultavano allo stadio per il nuovo spettacolo importato dall’Inghilterra, le cronache dei giornali parlavano di "appassionati", "fanatici" o "partigiani", aggiungendo a volte rafforzativi come "turbolenti", "irruenti", "nevrotici". A un certo punto qualcuno – a Grande Guerra da poco finita – cominciò a parlare di tifo e di tifosi. A Faenza il 28 ottobre 1925 (forse non casualmente nel terzo anniversario della Marcia su Roma) comincia le pubblicazioni un nuovo settimanale sportivo, che sceglie di chiamarsi Il Tifo. Il Corriere della sera parla per la prima volta di "tifosi" in un articolo del 1927, raccontando di una gara di carriole per il carnevale. Intanto la passione per lo sport si diffonde, diventa un fatto sociale sempre più importante e spuntano anche i primi “eroi“, con epiche sfide e contrapposizioni, finché il tifo entra nei dizionari: per l’Enciclopedia italiana, anno 1939, è una "passione sportiva accesa e entusiastica, soprattutto in quanto si esprime in uno stato di eccitazione, con incitamenti, fischi, applausi, ecc., nel parteggiare per una squadra o un atleta durante una competizione".

Daniele Marchesini e Stefano Pivato in Tifo. La passione sportiva in Italia, appena uscito per Il Mulino, scrivono che il termine allude apertamente alla malattia contagiosa, tanto che un giornale sportivo spiega con naturalezza: "Il tifo calcistico, di natura benigna, ha però la pericolosa caratteristica di darti una specie di febbre malarica, che ti tiene compagnia fin che campi". Non è chiaro perché solo in Italia si parli di “tifo“ e non – in modo più neutro e senza riferimenti alla medicina – di “supporter“ o “fan“ come in Gran Bretagna e Francia, ma sappiamo per certo che la moderna passione sportiva del popolo italiano ha radici profonde.

Edmondo De Amicis ne parlava gia à fine 800, prima che si affermasse il culto del calcio, con riguardo al pallone col bracciale, oggi praticato solo in alcune province liguri e piemontesi, ma all’epoca così popolare da spingere quasi ogni città piccola e grande a dotarsi di uno sferisterio in grado di ospitare le sentite sfide fra squadre di “battitori“, “spalle“ e “terzini“. "Taci profano – scrive De Amicis nel 1897 – Tu non puoi comprendere quanto noi godiamo coi sensi e con lo spirito, noi che impugnammo il bracciale nei nostri begli anni, allo spettacolo d’una partita al pallone giocata da artisti di polso".

Perché il pallone col bracciale sia tramontato così rapidamente è ancora motivo di discussione, fatto sta che il “tifo“ prese rapidamente piede – specie nel ciclismo, poi nel calcio, ma senza trascurare boxe e automobilismo – fino a diventare un tratto caratteristico dell’identità nazionale. Quanto volte abbiamo pensato, detto e scritto che il tifo per la Nazionale di calcio è il principale elemento di identificazione collettiva del popolo italiano, e quante volte abbiamo dato ragione al poeta (Giovanni Raboni) che scriveva: "Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita, di sé stessi, di quello che si è stati, di quello che si spera di continuare a essere".

Pier Paolo Pasolini – discreto calciatore, tifosissimo del Bologna – definì il calcio "l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo". E il poeta spagnolo Camilo José Cela, premio Nobel per la letteratura nel 1989 e autore di Undici racconti sul calcio, definiva la domenica allo stadio un "pasto spirituale". Forse è questa la chiave, uno spirito religioso applicato al calcio e in generale al tifo sportivo. Del resto parliamo di “fede“ per la squadra del cuore, abbiamo “templi“ riconosciuti – gli stadi – nei quali identificarsi e praticare il “culto“; abbiamo “eroi“ trattati come santi (ci sono anche i “santini“, se pensiamo alle figurine) e non manca nemmeno il mercimonio, mai assente nella pratica religiosa, poiché la corruzione è propria di ogni pratica umana. E comunque, come si lesse un giorno sopra uno striscione allo stadio di Brescia, all’epoca squadra di “san“ Roberto Baggio: "Dio c’è e ha il codino".

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