Shel Shapiro, profeta Beat. "Così il '68 spazzò via noi cappelloni"

"I miei Rokes erano uno dei tanti gruppi musicali che puntavano su una protesta ingenua. Poi i contenuti divennero più importanti e chiudemmo bottega. Ma fu un'epoca di grandi speranze"

Shel Shapiro (Fotoschicchi)

Shel Shapiro (Fotoschicchi)

Milano, 18 marzo 2018 - "Quella del Sessantotto fu l’ultima generazione innocente. Persino ingenua, tanto che venne manipolata alla grandissima…".

Shel Shapiro si avvicina al traguardo dei 75 anni di età. Arrivò in Italia all’alba dei Sixties, come leader di un gruppo musicale chiamato The Rokes. Non è più tornato a casa, in Inghilterra. Fa il produttore e anche l’attore, attualmente sta girando un film insieme a Fabio De Luigi.

"Mio padre, uomo d’affari, era preoccupato, non sapeva cosa combinassi qui da voi – sospira – Un giorno si presentò a Milano per convincermi a riattraversare la Manica. Io ero primo in Hit Parade ed ero anche un po’ allegro, così comprai una Rolls Royce e lo andai a prendere all’aeroporto. Lui capì che non me la cavavo male e fine delle trasmissioni".

Italiano per sempre. "Prima del Sessantotto le nostre canzonette spopolavano. Con i Rokes c’erano l’Equipe 84, i Camaleonti, i Nomadi…".

Vi chiamavano complessi. "Ma se mi passa la battuta non eravamo dei complessati. Solo che non durammo tanto".

Per colpa di chi? "Del Sessantotto, appunto. Che investì anche la cultura popolare. All’improvviso i contenuti divennero più importanti della melodia".

Il messaggio, tutti cercavano il messaggio! "All’estero era già successo, tant’è vero che nella mia Inghilterra del Sessantotto non hanno memoria, lì e in America la svolta c’era già stata. Dylan era più importante dei Beatles, che pure si erano evoluti, da She loves you erano passati a Sergeant Pepper. In Italia uno come Gianni Morandi dovette sparire per dieci anni. Come Rokes capimmo l’antifona e chiudemmo baracca in fretta".

Quindi quell’anno famoso e famigerato a lei ha dato fastidio. "Al contrario. Fu un periodo bellissimo. C’era tanta speranza. Noi eravamo i buoni, se mi passa la semplificazione".

Sicuro? "Parlo delle intenzioni che stavano alla base del movimento. C’era una grande ansia di libertà, un fortissimo desiderio di cambiamento".

Qualcosa dell’epoca avete raccontato nello spettacolo di Edmondo Berselli ‘Sarà una bella società’. "Edmondo aveva capito molto meglio di me equivoci ed emozioni dell’epoca. Io non sono mai stato un intellettuale".

Giocavate alla rivoluzione in nome del diritto ai capelli lunghi. "Io per niente. Qualcuno ci ha creduto, alla rivoluzione possibile. Ma erano pochi, si fidi".

Fu un’illusione ottica, un’allucinazione collettiva? "Vede, bisogna distinguere. In un primo momento c’è la spinta degli studenti. Il Sessantotto nasce a scuola, nelle università. Ne parlavo l’altro giorno con il mio amico Mario Capanna, sono andato alla presentazione di un suo nuovo libro…".

E che dice Marione nostro? "Capanna era e resta un gioioso, vede la luce anche nel buio più profondo".

Però c’è chi sostiene che in Italia il Sessantotto fu l’incubatrice del terrorismo. "Scemenza colossale. Il terrorismo, rosso e nero, rispondeva a dinamiche geopolitiche estranee alla suggestione sessantottina".

Voi eravate innocenti. "E ingenui. Vede, la protesta degli studenti presto si saldò con la contestazione operaia. I lavoratori chiedevano condizioni di vita migliori. Le guadagnarono e per loro la faccenda si chiuse lì".

Non per tutti fu così. "Sa, in fondo noi giovani volevamo un po’ di libertà in più, in un mondo che era crudele, perché se lei ci pensa nel 1968 vengono assassinati Robert Kennedy e Martin Luther King, mentre i carri armati di Mosca soffocano nel sangue la primavera di Praga".

Proprio un bell’anno. "Appunto: ma che colpa abbiamo noi? L’abbiamo cantato, per questo dico che venimmo manipolati, messi in mezzo. Abbiamo perso le illusioni ma non le nostre ragioni…".

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