Venerdì 1 Novembre 2024
VITTORIO SGARBI
Magazine

La forza dell’arte al tempo del fascismo

Il nuovo libro di Vittorio Sgarbi: "Superare la reticenza e la rimozione. La paura di affrontare il regime tradisce la conoscenza"

Il cartellone della mostra Annitrenta, dedicata ad Arte e cultura in Italia al tempo del fascismo, organizzata a Milano nel 1982

Il cartellone della mostra Annitrenta, dedicata ad Arte e cultura in Italia al tempo del fascismo, organizzata a Milano nel 1982

Esce oggi il nuovo libro di Vittorio Sgarbi Arte e Fascismo (La nave di Teseo), dedicato all’esperienza artistica nel corso del Ventennio. Venerdì l’autore sarà ospite della XXV edizione della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, per una serata dal titolo Arte e Fascismo. Nell’Arte non c’è Fascismo. Nel Fascismo non c’è Arte, una lectio di e con Vittorio Sgarbi, all’interno del ciclo “Rinascimenti e Scoperte” dedicato ai maestri dell’arte (Montalto delle Marche, Piazza Umberto I, ore 21). Pubblichiamo un estratto del libro.

La reticenza. La paura della storia. L’antifascismo perenne. Il fantasma di Mussolini. Ovvero: il faut être absolument antifasciste . Da questi diktat deriva la rimozione nell’ultimo quarantennio della evidente connessione di Arte e Fascismo. Così, a partire dalla inarrivabile mostra del 1982 (con il titolo in caratteri decofascisti) Annitrenta, a Milano in Palazzo Reale/Arengario definito “contenitore d’epoca”, si sono susseguite mostre inequivocabili dai titoli elusivi, il cui tema era tuttavia sempre e soltanto quello: Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre, a Forlì, nei musei di San Domenico, nel 2013, a cura di Fernando Mazzocca; Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics. Italia 1918-1943 , catalogo della mostra a Milano, Fondazione Prada, nel 2018, a cura di Germano Celant; Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, a Cremona, museo civico Ala Ponzone, 2018-2019, a cura mia e di Rodolfo Bona; cui vanno aggiunte le mostre, nel nome di Margherita Sarfatti, al Mart e a Palazzo Reale a Milano. Quella di Forlì, dopo un severo pronunciamento del consiglio comunale, mutò l’audace titolo Dux. Gli anni del consenso , storiograficamente impeccabile, nel generico, e non strettamente sarfattiano, Novecento.

Siamo antifascisti. Non possiamo pronunciare quella parola, se non contro. Nonostante l’evidenza, cronologica e iconografica. La damnatio memoriae. Fascismo mai. In-no-mi-na-bi-le. Innominato. Nonostante l’evidenza. L’attrazione del male. Il Fascismo è come la mafia. Si deve solo contrastare. E raccontarlo? No, se non fingendo di parlare d’altro. Eludendo. Alludendo. Divagando.

Ma il tema – e il tempo – è quello. No. Meglio fingere. Inganniamo il popolo. Diamogli qualche dose di Sarfatti. E quelli che firmarono il “Manifesto degl’intellettuali fascisti”? Gabriele d’Annunzio, Giuseppe Ungaretti, Ardengo Soffici, Luigi Pirandello, Margherita Sarfatti, Curzio Malaparte, Ugo Ojetti. Ignoriamo questo dettaglio, parliamone prescindendo. Così siamo arrivati fino a oggi, rimuovendo, girando la testa, censurando. Un buco di vent’anni, e un buio di ottanta successivi. Siamo oltre il centenario.

Così, dopo Il regime dell’arte a Cremona , ho voluto riparare a questa smemoratezza, a questa ipocrisia. L’avevo fatto a Stupinigi con la paurosa mostra Il Male . L’avevo fatto a Salemi, strappando a Corleone il museo della mafia, proposto dalla Fondazione Rosselli, e ricusando il consolatorio e riparatorio Centro di documentazione della attività dell’anti- mafia. La mafia che c’è stata si può raccontare, senza paura, e il museo ne fa una cosa morta, archeologica. In un museo muore anche l’arte contemporanea. La paura tradisce la conoscenza.

Lo capirono Angelica e Luciana Giussani (cognome altrimenti noto per la vocazione al bene) che chiamarono il loro fortunato fumetto Diabolik , non Ginko . È cosa nota, d’altra parte, che il male fa notizia, e il bene no. Che i bambini amano le armi e giocano alla guerra. Che la follia genera creatività, e la salute è contigua alla ginnastica (per carità, niente di male; ma Juri Chechi non è van Gogh). E così ho deciso, senza veli, senza giochi di parole, senza ipocrisie: Arte e Fascismo.

Cosa nota, cosa nostra, artisti grandissimi, a partire da Adolfo Wildt. Ma La Russa ha in casa busti del Duce. Ce ne faremo una ragione. Sono stati anche, in numero esagerato, in un museo, il Musa di Salò, per volontà di Giordano Bruno Guerri, che ebbe il coraggio di un titolo diretto, sotto specie saggistiche: Il culto del Duce; l’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolini, e nessuno protestò, come era invece accaduto nella partigiana Seravezza nel lontano 1997.