"Scarpetta, il genio del teatro e la sua tribù"

Pioggia di applausi per Mario Martone e il suo “Qui rido io” ieri in concorso a Venezia: "Un patriarca spinto dalla fame di riscatto sociale"

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di Giovanni Bogani

Applausi calorosi, sia in proiezione stampa sia in Sala Grande, per Qui rido io, il film di Mario Martone, in concorso alla Mostra e in sala da domani, che riporta alla luce la storia di Eduardo Scarpetta, leggenda del teatro del primo Novecento, fuoriclasse, mostro sacro del palcoscenico. Ma anche capotribù di una famiglia allargata, nella quale lui si comportava come un sultano in un harem. Una famiglia di attori, con figli legittimi e figli illegittimi, mai riconosciuti. E fra questi figli, c’erano Eduardo e Peppino De Filippo, mai riconosciuti legalmente, ma eredi del suo talento straordinario.

Qui rido io è un film che è insieme tre cose: una lettera d’amore al teatro, il ritratto di un patriarca seducente e dispotico, talentuosissimo e presuntuoso; e un affresco del primo Novecento, della fine di un’epoca, quella in cui il grande spettacolo popolare era il teatro. Poi arrivò il cinema. Ed è un film su una paternità negata: e se si vuole, un film su una comunità di creativi che vivono fuori dalle regole, così come erano i seguaci del pittore Karl Diefenbach nel suo film Capri – Revolution.

Tanti fili che si intrecciano, in un film ’teatrale’, giocato quasi tutto in interni, e dominato dalla presenza attoriale di Toni Servillo, un mattatore che interpreta un altro mattatore, di un secolo precedente.

Mario Martone qual è stata la scintilla iniziale, ciò che la ha spinta a raccontare Eduardo Scarpetta?

"Con Ippolita di Majo, che ha scritto il film insieme a me, abbiamo pensato che nella storia di Scarpetta ci fosse un mistero. Quello di una famigliatribù dominata da un genio-patriarca amorale, una figura quasi mitologica, che aveva figli con la moglie, con la sorella della moglie, con la nipote della moglie...".

Era un uomo che andava oltre la morale corrente.

"Sì, tutta la sua famiglia si distaccava dagli standard borghesi dell’epoca, e sarebbe lontana anche da quelli di oggi. E però, tutta questa tribù stava insieme, e i figli studiavano, e le figlie pure. Tutti diventano attori: e nel caso di Eduardo, addirittura ci troveremo di fronte a un nuovo genio del teatro. Era una storia che meritava raccontare".

Quanto conta Napoli, nel film?

"Conta moltissimo la forza creativa di Napoli, in quello scorcio di secolo. È a Napoli che nasce il cinema in Italia: la prima inquadratura del film è una inquadratura fatta dai fratelli Lumière, che filmarono Napoli nel 1896".

Ha scelto di lavorare con Toni Servillo, di affidare a lui la figura di Eduardo Scarpetta. Come avete lavorato insieme?

"Ci legano molte cose: una conoscenza lunga quarant’anni, tante esperienze vissute insieme. Potevamo scambiarci tanto della vita che abbiamo vissuto, costruendo insieme questo personaggio gigantesco".

Chi era, quindi, Scarpetta?

"Un genio del teatro, un patriarca spinto da una fame di riscatto, di rivalsa che lo spinse a scrivere Qui rido io sulla facciata della sua villa a Posillipo. Un animale, un predatore. Le sue prede sono le donne, il teatro, la città, i testi teatrali. Divorava tutto. Nel film, c’è uno scambio fra la vita e il palcoscenico: la camera da letto e le quinte del palcoscenico si mescolano, a mostrare anche visivamente di quanta vita sia fatto il teatro, e quanto teatro ci sia nella vita".

La scena del processo che vide l’autore di Miseria e Nobiltà sotto accusa di plagio da Gabriele D’Annunzio ci consegna uno Scarpetta ferito, ma ancora capace di dare l’ultima zampata: di trasformare il processo in uno spettacolo.

"Quest’uomo aveva visto, poco prima, il pubblico per la prima volta rivoltarglisi contro. Non cadde in disgrazia, ma sentì una ferita interiore che non si rimarginò più. Aver avuto un attore come Toni Servillo a disposizione, per poter rappresentare anche questo dolore, è stata una freccia al mio arco decisiva".

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