Quel saluto tra motociclisti

Le tribù dei biker, nelle loro variopinte diversità, hanno un codice che li unisce

Raduno Harley-Davidson (Ansa)

Raduno Harley-Davidson (Ansa)

Roma, 16 settembre 2018 - L’estate è andata e per chi l’ha trascorsa in moto è tempo di struggenti ricordi, magari da raccontare agli amici (motociclisti anch’essi) in attesa della prossima stagione. Le grandi tribù di quelli che preferiscono le due alle quattro ruote hanno da sempre usanze, codici e caratteristiche molto diverse tra loro. C’è chi è stato folgorato da giovane dalla lettura di Jack Kerouac e dal suo girovagare di “On the Road”, oppure chi si sente perennemente votato alla ricerca del suo io, come il protagonista dello “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Pirsig, o anche chi, ricercando luoghi che nessun’altro ha battuto, si sogna come un novello Alberto Granado, compagno di viaggio lungo l’America latina di tal Ernesto Guevara, al secolo “El Che”, a bordo di una scassatissima Norton 500 tenuta su con il fil di ferro e meglio nota come “la Poderosa” (I diari della motocicletta). I miti di riferimento di queste innumerevoli tribù non sono però solo letterari, ma anche e soprattutto psicosomatici: ci sono quelli che cavalcando mostri - prevalentemente di fabbricazione tedesca ça va sans dire - alti quasi due metri e capaci sia di divorare l’autostrada ma anche di attraversare il deserto del Gobi in un sol boccone si sentono un incrocio tra Indiana Jones ed un astronauta pronto a sbarcare su Marte. E non fa nulla se poi durante l’anno su quel cavallo di acciaio sono costretti a fare la spola tra casa e ufficio affrontando come massimo rischio qualche tombino (a Roma il discorso si fa diverso). Poi ci sono quelli che su fantasmagorici, e altrettanto rumorosi, bicicli americani sognano di essere sulla Route 66, in genere vestiti e brandizzati di tutto punto come se fossero appena usciti da un saloon del Texas o da un set di Quentin Tarantino, il che è uguale. Per non parlare degli emuli di Valentino Rossi che indossano tenute da gara attillatissime anche per andare a prendere il gelato la domenica con la propria compagna (centauro anch’essa spesso per passione, talvolta per dovere) su bolidi capaci di andare a oltre 300 all’ora e che non decollano solo per qualche misterioso difetto aerodinamico.

Ebbene tutte queste tribù, nelle loro variopinte diversità - unite solo da un profonda avversione per quelli che sono chiamati con malcelato disprezzo gli “scooteroni” - hanno però un codice che li unisce: ogni volta che si incontrano e si incrociano mentre sono in sella si salutano con la mano sinistra (momentaneamente staccata dal freno) facendo o il segno della V oppure alzando l’indice. Questo è infatti il saluto se l’incontro è frontale (da ricordare che sopra i 100 km/h l’arto deve andare verso il basso altrimenti il vento ti stacca il braccio): se invece ci si incrocia in fase di sorpasso il saluto va fatto sollevando la gamba destra dalla pedana (operazione complessa, per ragioni artritiche, per gli over 50, ma tant’è).

I più pigri lampeggiano con gli abbaglianti, ma questo gesto non è sempre ritenuto sufficientemente rispettoso, oppure delegano le public relations al passeggero (che in effetti cos’altro ha da fare, visto che non può nemmeno utilizzare lo smartphone?). Ma non finisce qui: quando queste tribù erranti si incrociano ai punti di sosta si salutano sempre, anche solo ammiccando con complicità oppure attaccando bottone commentando, da questo non si scappa, o le moto o i percorsi (già fatti o da fare). Va invece taciuto cosa accade se c’è qualche birra nei paraggi. Tutto questo è un pezzo della Grande Bellezza dell’andare su due ruote, mondo tuttora magico, reale e non virtuale, nel quale ancora si “vede” e si riconosce l’altro e quindi ci si saluta e ci si rispetta: tutti diversi ma anche tutti accomunati da una grande passione. Anzi, a dirla tutta, credo proprio si tratti di amore (e non di un calesse).

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