Mercoledì 24 Aprile 2024

Rudolf, il primo ebreo che evase dal lager

Ricostruita la storia del ragazzo che riuscì a fuggire da Auschwitz: "Devo raccontare l’orrore". Aveva solo 19 anni e salvò 200mila persone

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di Silvia Gigli

La fortuna. Per molti sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti è stata fondamentale. Certo, la resilienza, la tenuta fisica e psichica giocarono un ruolo importante. Ma, davanti alla follia hitleriana solo la fortuna poteva sconfiggere l’orrore. È ciò che capitò a Rudolf Vrba, il primo ebreo a fuggire da Auschwitz insieme al suo compagno Fred Wetzler. Rudolf aveva 19 anni. La sua storia è sorprendente. In vita non ha avuto la considerazione che avrebbe meritato, così lo scrittore Jonathan Freedland ha deciso di raccontare la sua epopea nel libro L’artista della fuga, con l’intento di porlo al pari di Anna Frank, Oskar Schindler e Primo Levi.

Rudolf Vrba non era il suo vero nome. Si chiamava Walter Rosemberg, nato l’11 settembre del ’24 e cresciuto in Slovacchia. Si diede un nuovo nome, verso la fine della guerra, come forma di difesa. Espulso dalla scuola a 14 anni perché ebreo, conosceva diverse lingue – tedesco, ceco, slovacco, ungherese – e questo gli tornò utile. Fuggì in Ungheria ma fu arrestato; scappò da un campo di transito e fu nuovamente arrestato. Nel giugno 1942 arrivò ad Auschwitz. Pensava alla cifra tatuate sul suo braccio – 44070 – come a un numero fortunato perché aveva avuto un lavoro meno oneroso degli altri internati, la verniciatura di sci per le truppe tedesche; all’ultimo minuto si salvò dalla strage di 746 uomini del campo giustiziati durante un’epidemia di tifo.

Il più fortunato di tutti, insomma, tanto che fu mandato in un dipartimento d’élite, ovvero nel campo noto come Kanada, dove si smistavano i vestiti, i bagagli e gli oggetti di valore di chi finiva nelle camere a gas. Il lavoro qui era meticoloso; anche i tubetti di dentifricio venivano spremuti nel caso in cui ci fossero dentro dei diamanti. I prigionieri potevano trovare cibo da mangiare e oggetti di lusso che potevano essere barattati (Vrba una volta scoprì 20.000 dollari ma li distrusse piuttosto che rischiare di contrabbandarli o consegnarli ai nazisti). Il Kanada era Auschwitz nella sua forma più “lussuosa“, ma fu lì che capì per la prima volta che i nazisti stavano rubando i beni degli ebrei (i bauli pieni di oro e denaro sarebbero stati trasportati al quartier generale delle SS a Berlino) e che gli stermini venivano eseguiti su vasta scala. Iniziò allora a sentire l’urgenza di raccontare al mondo cosa stava succedendo davvero ad Auschwitz. E l’unico modo per farlo era scappare.

Aveva memorizzato la mappa verso il confine slovacco. Aveva bisogno di aiuto e si unì a un compagno slovacco, Alfréd Wetzler. Si nascosero in un minibunker sotto una pila di assi di legno. Gli uomini delle SS camminavano vicini con i cani, ma grazie al “machorka“ – tabacco russo imbevuto di benzina ed essiccato –, non sentirono il loro odore. Dopo tre notti, i due sgattaiolarono fuori dall’accampamento. Era l’aprile del ’44. Il viaggio verso il confine slovacco non fu facile. Per fortuna fecero amicizia con un contadino e, travestiti da contadini, raggiunsero la salvezza. Quello che accadde dopo fu altrettanto duro: diffondere la verità su Auschwitz, compilare un rapporto sul numero di morti lì (circa 1,7 milioni), persuadere l’Ungheria a fermare i trasporti. Le ambizioni del ragazzo furono in gran parte frustrate, ma grazie a lui furono risparmiati dalla morte almeno 200.000 ebrei.

Vrba pubblicò un suo libro di memorie di Auschwitz nel 1963, ma non spiegò quanto poco fosse stato ascoltato il suo messaggio su Auschwitz. Con l’aiuto delle lettere di Vrba, della sua prima moglie Gerta, della sua vedova Robin e di numerosi studiosi, Freedland ha ora colmato ogni lacuna. Dopo la guerra, paradossalmente, la fortuna di Vrba si esaurì. Il matrimonio con Gerta gli diede due figlie, ma durò poco. Ebbe una brillante carriera come biochimico, ma non riuscì a stabilirsi né in Israele né a Londra. I rapporti con il suo compagno di fuga ad Auschwitz si inasprirono. Infine, sua figlia maggiore si uccise, e da quella tragedia non si riprese più. Si allontanò sempre più dalle persone. Ma durante i processi e nelle interviste, continuò a lottare per assicurare alla giustizia i nazisti e i loro collaboratori. E sebbene la sua sia stata una serie di fughe – da Auschwitz, dal suo nome, dal suo paese e dal suo matrimonio – fu fedele a chi era e alla sua missione di far sì che il mondo affrontasse la verità sull’Olocausto.

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