Venerdì 19 Aprile 2024

Remo Girone: "Ero il cattivo della Piovra, ma nella vita sono sempre stato un buono"

L’indimenticabile protagonista della saga tv sulla mafia: "Sono nato in Eritrea, quando era italiana e da lì ho iniziato col teatro". "Vivo con la stessa donna da 40 anni, insieme abbiamo affrontato la mia battaglia contro il tumore. Ora torno al cinema con Drake"

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Nato nel Corno d’Africa, cresciuto parlando italiano e tigrino, studiando teatro invece di andare, come gli altri ragazzi, a tirar tardi per le strade. Poi l’Italia negli anni ’70, il sogno del palcoscenico che diventa realtà, maestri come Orazio Costa e Luca Ronconi: Mario Luzi che viene a uno dei suoi primi spettacoli, poeta sublime che lo applaude. E poi il cinema, con maestri del film d’autore come Jancsò e Bellocchio, fino al momento in cui la televisione gli cambia la vita. È "La piovra", la terza stagione, quella in cui irrompe il personaggio di Tano Cariddi, il finissimo e spietato finanziere della mafia: corrotto, ambizioso, intelligentissimo, letale.

Una popolarità immensa, da un giorno all’altro il suo volto diventa un’icona, un simbolo. E la vita che continua, con gli alti e bassi, con un amore che dura da più di quarant’anni. E con una grande paura, una paura mortale vinta, superata: tanto che adesso, Remo Girone si dedica ad aiutare altri a vincerla. Raggiunto al telefono mentre trascorre qualche giorno di vacanza nel principato di Monaco, Remo Girone racconta la sua vita, i suoi successi, le sue sfide.

La sua biografia recita "nato all’Asmara". L’Asmara, la capitale dell’Eritrea, sul Corno d’Africa. La sua vita inizia con una pagina esotica.

"Sì, sono nato in Eritrea da genitori italiani. Era il 1948, e in quella che fino al 1941 era stata una nostra colonia c’erano molti italiani: ancora oggi si vedono i segni dell’architettura italiana. In Eritrea sono rimasto fino al 1970, fino ai miei ventidue anni. Lì ho mosso i primi passi a teatro, nelle compagnie filodrammatiche. Non dovremmo sottovalutarle: da compagnie come quella sono venuti fuori anche Dario Fo e tanti altri talenti. Di giorno studiavo, di sera invece di uscire a fare la movida – c’era anche allora, sa? – provavo gli spettacoli".

Come si trovava, fra italiani ma a migliaia di chilometri dall’Italia?

"Benissimo: ho fatto il liceo italiano, ma insieme a tanti ragazzi eritrei preparatissimi. Gli eritrei parlavano quasi tutti italiano, e noi parlavamo un po’ di tigrino, la lingua più diffusa".

In Italia ha avuto maestri importanti, come Orazio Costa e Luca Ronconi…

"Orazio Costa mi ha dato le prime grandi occasioni. A Firenze mettemmo in scena ‘Il caso di Pietro Pagolo Boscoli’: quella sera in platea c’era il poeta Mario Luzi. Mi fece i complimenti, e io toccai il cielo con un dito".

I momenti più duri?

"Ero appena uscito dall’Accademia. Luca Ronconi mi offrì dapprima un ruolo di protagonista in un suo lavoro. Poi ci ripensò: mi disse ‘forse non ce la fai, ti affido un personaggio più semplice’. Pensai di avere sbagliato tutto. Mi prese una depressione fortissima, una sensazione di fallimento che mi sono trascinato addosso per anni".

Come l’ha vinta?

"Grazie a Mario Tobino. Lo scrittore che era anche medico psichiatra, che si dedicò alle sofferenze dei malati di mente, oltre a scrivere libri bellissimi come ‘Le libere donne di Magliano’. Tobino passò un pomeriggio con me. Poi mi disse ‘tu non hai niente, butta via gli psicofarmaci, subito: ti distruggono la personalità. Disintòssicati. L’ho fatto, e da allora sono un uomo diverso".

Tanto teatro, poi il cinema – con Miklòs Jancsò, con Bellocchio, con Cinzia TH Torrini. E nel 1987 il grande successo con "La piovra". Dalla terza stagione lei è Tano Cariddi, uno dei personaggi più feroci e interessanti della serie. Che cosa ha significato per lei Tano Cariddi?

"La rivoluzione. Da un giorno all’altro, mi riconoscevano tutti! Tano Cariddi mi ha dato molto, ma non mi sono mai sentito condizionato dal personaggio. Per ogni serie, lavoravamo al massimo per venticinque giorni, una volta all’anno. Anche come impegno lavorativo, era leggero".

Nella vita privata, vive con l’attrice argentina Victoria Zinny un amore lungo quarant’anni. Qual è il vostro segreto?

"Non c’è segreto. Semplicemente la amo. Di solito si prende il mondo dello spettacolo come esempio di un universo dove i sentimenti sono precari, effimeri: ma questo succede anche fra le persone che fanno altri mestieri. A noi è accaduta questa fortuna: io ho avuto il regalo di vivere con questa donna da più di quarant’anni. E ancora mi vuol bene, anche se non sono più carino come quando di anni ne avevo trenta…".

Chi comanda, fra i due?

"Non lo so. Ma le racconto una cosa. Durante il lockdown mi sono lasciato crescere la barba: a mia moglie non piaceva. ‘Quando te la togli?’, continuava a ripetere. Io mi ostinai un po’ a tenerla. Poi ho pensato: ma se a lei non piace, perché non posso fare un piccolo sacrificio per tenermi stretta la donna che amo? Via la barba".

La nostra natura di esseri umani ci mette anche di fronte alla nostra fragilità. Per esempio alla malattia. Anche a lei è accaduto.

"Sì: trent’anni fa sono stato operato di un tumore alla vescica. Ho avuto molta paura, poi sono guarito. Da allora, tutti i momenti sono belli per me: il mondo ha ricominciato ad esistere, in modo più vivido di prima. Ma da allora, dato che sono stato fortunato, cerco di impegnarmi perché altri non debbano soffrire. Sono testimonial dell’Airc, l’associazione italiana per la ricerca sul cancro, e penso sia una delle migliori cose che ho fatto nella mia vita. La cosa più importante è la prevenzione: tenersi sotto controllo. Oggi tutta una serie di tumori sono più curabili di prima".

Recentemente, ha interpretato un sacerdote in "Infernet" di Giuseppe Ferlito. Un sacerdote che si indigna.

"E’ stata una bella esperienza, con Ferlito. In un mondo di adolescenti violenti, di vite sbandate, quel prete – accusato e infamato con delle scritte false su un muro – è il personaggio puro, un baluardo di ragione, di etica, di rispetto umano".

Negli ultimi anni, tanto cinema americano. In "Le Mans ‘66 - la grande sfida" di James Mangold interpreta il Drake Enzo Ferrari.

"Con il ruolo di Enzo Ferrari ho potuto dipingere un uomo innamorato dello sport, della competizione, dell’etica sportiva. Un italiano che credeva nel coraggio, nella bellezza della velocità, e non solo nel potere dei soldi".

Nei prossimi giorni dove andrà?

"In un paese splendido che si chiama San Ginesio, come il santo protettore degli attori. Il 25 agosto premieremo Massimo Popolizio e Federica Fracassi. Sarà anche quello un modo per ricominciare".

E’ stato anche nominato commendatore e poi ufficiale della Repubblica, per iniziativa del presidente Mattarella. Che effetto fa?

"Oltre al piacere enorme, una crescita della responsabilità come persona, e come attore. Quella spillina che si mette alla giacca, nelle occasioni ufficiali, è molto più di quello che si vede".

Che cosa vorrebbe, che cosa desidera a questo punto della sua carriera, della sua vita?

"Vorrei essere più altruista. Noi attori abbiamo un ego più sviluppato degli altri. Ecco, vorrei pensare di più agli altri".

 

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