Re Logan: Shakespeare ai tempi delle serie tv

Un magnate Usa e la lotta fratricida dei tre figli per ereditare il suo impero mediatico. Il gran finale di “Succession“, la fiction più amata

I "fratelli Roy" di Succession: Jeremy Strong e Sarah Snook

I "fratelli Roy" di Succession: Jeremy Strong e Sarah Snook

Kendall guarda il mare. Finisce così la saga di Succession, il decimo e ultimo episodio della quarta e ultima stagione della serie tv meglio scritta e meglio diretta di questi ultimi anni, ideata dall’inglese Jesse Armstrong (52 anni), prodotta negli Stati Uniti da Hbo che ha iniziato a trasmetterla nel giugno 2018, e che in Italia è apparsa su Sky Atlantic da settembre di quello stesso anno. Come da titolo è la storia di una successione: l’anziano capofamiglia Logan Roy – modellato su Murdoch – ha creato dal nulla, immigrato giovanissimo negli Stati Uniti dall’Irlanda, un gigantesco impero industriale (parchi di divertimento, crociere) il cui centro pulsante è la rete televisiva Atm, un canale d’informazione più che conservatore – ogni riferimento a Fox News è più che voluto –, attraverso il quale vengono manipolati, col solo schiocco di due dita, i destini delle elezioni dei presidenti Usa.

Logan è un vecchio reazionario collerico, crudele, arrogante, anaffettivo che controlla come marionette i tre dei quattro figli che aspirano a prenderne il posto. Il figlio più grande, Connor, nato da una moglie di Logan di cui si sa pochissimo, si è autoescluso dalla corsa; a credere di poter succedere al trono del boss sono i figli della seconda moglie: Kendall, il maggiore, Shiv la sorella, Roman. Per quattro stagioni si alleano tra loro o con il padre e si combattono tra loro, e combattono il padre, in equilibri perennemente alterni e precari. Nulla – mai, mai – è quel che sembra: l’anima nera che governa questo lussuosissimo corrotto e impunito universo tutto ville e yacht, sciccosissimi abiti no logo e aerei ed elicotteri personali utilizzati dalla famiglia come fossero biciclette, è la sete di potere rappresentata in ogni possibile – politica, umana e disumana – declinazione. Logan mente ai figli promettendo a ognuno di loro, separatamente, che sarà lui (o lei) il prescelto ma in realtà li disprezza tutti, nessuno è all’altezza di quel ruolo se non se stesso, pure quando è così malato e malmesso da balbettare o pisciarsi addosso. Finché, nella quarta stagione, lascia ma solo perché muore. Cresciuti tra i privilegi miliardari, ma pure tra atti reciproci di violenza – si intuisce – e certo nell’incubo del vuoto affettivo genitoriale, ognuno dei tre figli è a suo modo brillante (talvolta) e idiota (spessissimo): quando decidono di allearsi tutti e tre contro il padre, nel confronto diretto con l’uomo si rivelano più fragili che mai: tre “spugne bisognose dell’amore di papà“ li definisce il fratello più grande che non è afflitto da quel dolore perché, dice, a differenza di voi io sono cresciuto da solo, come cresce una pianta su una roccia.

In molti hanno definito Succession un’opera scespiriana. Il punto di riferimento è ovviamente Re Lear che deve dividere il suo regno tra le tre figlie: nella parte del saggio di Massimo Donà Tutto per nulla dedicato a Lear, il filosofo vede nella tragedia la rappresentazione della radicale impossibilità di distinguere “ragione“ e “follia“ di contro a un pensiero ossessionato dal voler distinguere innanzitutto la “verità“ dall’“errore“. "Il fatto è che non si tratta della pazzia di questo o di quel personaggio – scrive Donà – ma di un mondo, di cui è stata messa a nudo la natura irrimediabilmente ’teatrale’". I protagonisti di quel mondo, citando Parmenide, sono erranti "mortali che niente sanno, uomini a due teste: poiché è l’incertezza che dirige nei loro petti l’oscillante mente. Ed essi vengono portati avanti muti e ciechi a un tempo, attoniti, gente indecisa, per cui l’essere e il non essere sono identici e non sono identici, e per cui di ogni cosa v’è una strada che può essere percorsa in due sensi".

Ogni strada intrapresa da ognuno dei personaggi di Succession, ogni loro azione e reazione, amore e malvagità e crimine, slancio sincero e automatica menzogna, è esattamente così: può essere percorsa in due sensi e a ogni episodio lo è, in un vortice di sceneggiatura che lascia lo spettatore sempre in dubbio, spiazzato, sempre senza fiato a interrogarsi su disperazioni, meschinità, paradossi di questa commedia degli orrori. Commedia, tragedia. Mondo-teatro. In cui alla fine – l’ultimo episodio è andato in onda ieri – non c’è nessun vincitore. Sulla ragione degli uomini domina la follia del potere, sulla follia degli uomini domina la ragione dei soldi. A vincere è solo il tradimento, è il marciume umano in cui affonda le radici il capitalismo. È l’impossibilità di rimarginare le ferite di tre cuori, tre cuori spezzati per sempre dal disamore di un padre.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro