Mercoledì 24 Aprile 2024

Rari, fantastici, letterari: semplicemente animali

Google ha reso omaggio all’ultimo esemplare maschio di rinoceronte bianco. Dall’ippogrifo di Ariosto al minotauro di Borges

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Roma, 21 dicembre 2020 - "È una mosca bianca", si dice di persona o cosa rara. Ma che succede se la mosca cresce a dimensioni iperboliche, fino a trasformarsi in rinoceronte? Ecco che avremo un rinoceronte bianco, la cui prodigiosa rarità sembra aumentare di pari passo con la mole. Una creatura di favola, verrebbe da dire, o un mostro mitologico come Moby Dick, la Balena Bianca di Melville, che nessuno potrebbe mai scambiare per un semplice cetaceo affetto da albinismo. Invece si tratta d’un animale in carne e ossa, più grosso e assai più raro di suo cugino il rinoceronte nero. L’ultimo esemplare maschio bianco si chiamava Sudan ed è morto due anni fa, all’età di 45 anni, nella riserva kenyana di Ol Pejeta. Oggi gli sopravvivono solo due femmine di 31 e 20 anni, Najin e Fatu, rispettivamente sua figlia e sua nipote, tanto che la sottospecie settentrionale del rinoceronte bianco può dirsi virtualmente estinta. Chissà se oscuramente, tra muscoli e arterie e ossa del suo gran corpaccione, sentiva di essere l’ultimo; chissà se una simile percezione sfiorò l’ultimo dinosauro, o se in un remoto futuro sarà questa l’estrema consapevolezza dell’ultimo essere umano: pensieri tristi di questo genere si accavallano davanti alla struggente fotografia del pachiderma ormai inerte, lo sguardo fisso, mentre un ragazzino in lacrime gli accarezza la testa dal corno poderoso.

Eppure, grazie a Google, da ieri Sudan galoppa a testa bassa nelle savane del mito. Infatti il doodle del diffusissimo motore di ricerca ha reso omaggio all’Ultimo Mohicano dei rinoceronti bianchi con un’immagine dove il pachiderma al pascolo irradia un’ombra gigantesca.

Un’ombra che s’allarga a invadere quei territori dell’immaginazione dove da sempre gli esseri umani proiettano i loro fantasmi ibridando realtà e fantasia. È il regno di mostri mitologici come i Centauri o le Arpie e di creature favolose come l’ippogrifo che portò Astolfo sulla luna alla ricerca del perduto senno di Orlando.

Ammettiamolo: a generare mostri non è il sonno della ragione, ma la sua insonnia. La nostra ansia di spiegare tutto, partita da un intento razionale, si perde davanti all’ibrida complessità dell’universo, e ha bisogno d’inventarsi sempre nuovi prodigi.

Un tempo, ad arricchire di chimere il nostro mondo interiore, i protoscienziati eruditi come Plinio o Ulisse Aldrovandi non contribuivano meno degli aedi omerici o dei poeti cavallereschi; oggi ad alimentare i miti, mescolando realtà e fantasia, ci pensano gli algidi algoritmi dei grandi motori di ricerca.

È uno dei paradossi (forse il più felice) della civiltà digitale, che a volte sembra pietrificarci davanti a uno schermo di computer col suo terrifico sguardo di Medusa, altre invece ci seduce col richiamo delle Sirene di Ulisse, o con l’ombra suggestiva d’un rinoceronte bianco ormai estinto, erede di quei possenti Behemot e Leviatani biblici che dal Libro di Giobbe alla filosofia di Hobbes hanno spadroneggiato nel nostro universo simbolico. Per lungo tempo anche il rinoceronte appartenne a questa categoria di creature favolose, condividendo la definizione di “mostro” con animali fantastici come la fenice che risorge dalle sue ceneri o l’anfesibena, funesto serpente a due teste ("come se una non le bastasse per scaricare il veleno" è il commento di Plinio); oppure il catoblepa, mitologico gnu dallo sguardo mortale e dalla testa pesantissima; o la manticora con tre ordini di denti, volto umano, corpo di leone e coda di scorpione.

Dobbiamo rassegnarci: la nostra povera fantasia è schiava dell’ibrido umano-animale, non può immaginare creature davvero aliene ma solo combinare ali, code, rostri, zampe, zanne.

Guardo la testa esanime di Sudan e immagino che anche l’Ultimo Rinoceronte Bianco, malato ormai terminale, sia andato incontro al veterinario venuto a dargli una fine pietosa con la stessa riconoscenza di Asterione, il minotauro di Borges, verso Teseo penetrato nel labirinto per liberarlo a fil di spada dal peso di un’ infinita solitudine.

 

 

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