
Renzo Arbore, 87 anni, ha festeggiato ieri a Roma i quarant’anni di Quelli della notte applaudito dagli universitari della Sapienza
Dopo quarant’anni l’etichetta di “quello della notte“ Renzo Arbore se la sente ancora attaccata addosso. Quando disse a Giovanni Minoli che voleva fare un programma notturno la risposta fu netta: "Alle 23 la gente dorme, c’è il monoscopio". "E togliamolo" gli fece eco Arbore. Fu così che alle 22.45 del 29 aprile 1985, su Raidue, nell’Italia craxiana fece breccia l’“edonismo reaganiano“, tormentone di un giovane Roberto D’Agostino. "Noi facevamo cazzeggio puro. Poi D’Agostino l’ha codificato ed è diventato il Manifesto degli Anni ’80" racconta, dietro le quinte, Arbore, giacca blu e foulard variopinto (che prima di entrare in scena però, ha scelto di togliere).
Ad attenderlo, ieri a Roma, nella platea del NuovoTeatro Ateneo della Sapienza, per celebrare il quarantesimo anniversario di Quelli della notte – uno dei programmi più rivoluzionari della televisione italiana, e oggi vero cult, ideato insieme a Ugo Porcelli – , gli studenti di Andrea Minuz, docente del Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte. Una platea di ventenni che conosceva il programma solo dai libri di testo di Storia della televisione.
E la domanda sorge spontanea: oggi Quelli della notte funzionerebbe ancora o è una comicità legata a un’altra epoca? "No, no, no, non abbiamo fatto satira dell’epoca, la satira la fanno altri. Noi – ribadisce Arbore – abbiamo fatto cazzeggio. Si parlava del più e del meno con invenzioni strane, ideate da me, da Riccardo Pazzaglia, e altri. Questa cosa non è stata più fatta".
Una formula che, lo hanno confermato i ragazzi, tra risate e applausi scroscianti, funziona anche oggi. "È meglio di Hollywood Party di Blake Edwards, mi ha detto uno mio studente" racconta Minuz.
Trentatré puntate che – come ha sottolineato Aldo Grasso, sul palco insieme ad Arbore e D’Agostino – hanno lasciato un segno: dalla creazione di uno "spazio nuovo", la seconda serata, all’introduzione del "carattere informale" in una società che si prendeva troppo sul serio. "Un programma leggero ma non banale, comico ma non scontato, popolare ma non populista. Guardare il programma era come entrare in una festa dove si attendeva l’imprevisto. Un salotto surreale capace però di parlare a tutti" ricorda la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni.
Seduti in prima fila: Nino Frassica, alias Frate Antonino da Scasazza che, con il suo linguaggio iconico (ne ha scritto anche Tullio De Mauro) dispensava improbabili "nanetti" (aneddoti); Maurizio Ferrini, rappresentante di pedalò della ditta “Cesenautica“, comunista romagnolo dalle convinzioni filosovietiche, del "non capisco ma mi adeguo", che invocava un muro tra nord e sud all’altezza di Ancona; Simona Marchini, l’esperta di gossip in un’epoca in cui il gossip non esisteva; e poi l’esperto di musica Dario Salvatori, e Andy Luotto, che con il suo arabo Harmand scatenò un caso politico con la Giordania. Tra gli spezzoni proiettati in sala un’esilarante Pazzaglia – "uno degli umoristi preferiti" ammette Arbore – in “La moglie di Cesare“; il jazzista Massimo Catalano con i suoi detti lapalissiani e Marisa Laurito nei panni della pettegola.
Guardando al presente, a un panorama del varietà televisivo che definisce "sonno lento", Arbore individua alcuni “eredi“. "Fazio con Il Tavolo, quando è con la sua brigata, si ispira un po’ a quello che facevamo noi, inventa delle cose. Però noi avevamo un tema ogni giorno, abbiamo inventato la conversazione disutile, senza nessuna conclusione, proprio il contrario di quello che poi hanno fatto tutti in televisione. Elio, con le Storie Tese, è certamente quello che è più vicino al mio umorismo. Anche Lillo & Greg. Poi c’è Fiorello che è bravissimo a improvvisare. Insomma gli artisti ci sono. Però quelli matti come quelli che ho avuto io lì, quelli sono rari a trovarsi".