Venerdì 19 Aprile 2024

Quelli che... il calcio era solo un pretesto

Quarant’anni fa moriva Beppe Viola, giornalista sportivo ma anche autore e grande innovatore del linguaggio. Non solo in tv

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di Matteo Massi

"Quanti anni ha?". Vincenzina rispose: "Diciotto il prossimo mese". E lui: "E allora torni al cinema il prossimo mese".

Quello che proibì l’ingresso al cinema a Ornella Muti. Il cammeo di Beppe Viola in Romanzo popolare di Mario Monicelli (1974) è un diamante grezzo, votato all’improvvisazione, che racconta quell’Italia perbenista, ove non si facevano sconti di fronte a un film vietato ai minori, tutto "sesso e nudità". Un dialogo spassoso a tre: tra Beppe Viola, che scrisse (con Jannacci) i dialoghi di quel film di Monicelli, Ornella Muti, Vincenzina appunto (quella di Vincenzina e la fabbrica con la voce trascinata dell’Enzo che canta: "Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui – Sto Rivera che ormai non mi segna più – Che tristezza, il padrone non c’ha neanche ‘sti problemi qua") e Ugo Tognazzi, il sindacalista Giulio Basletti.

Non fu l’unica volta di Beppe Viola al cinema (Tognazzi lo volle con lui anche in Cattivi pensieri, 1976) che per citarlo di vite vere, tranne la sua, ne aveva tante, ma l’unica reale è finita esattamente quarant’anni fa: il mattino del 18 ottobre 1982, dopo che la sera prima mentre stava montando il servizio Inter-Napoli per la Domenica Sportiva, fu colpito da un’emorragia cerebrale.

Giornalista sportivo, nemmeno sulla carta d’identità. Etichetta fin troppo riduttiva per uno come lui che cento ne pensava e qualche migliaio ne faceva. Gianni Brera gli rese l’onore delle armi con uno struggente ricordo: "Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli".

Ma la porca vita, quella vera, piaceva infinitamente a Beppe Viola. Aveva qualcosa di romantico che solo lui era in grado di raccontare e trasmettere, anche quando era semplicemente impegnato a raccontare quella che (ai più) sembrava solo una partita di calcio.

Viola è entrato nel mito del giornalismo sportivo, forse con ritardo e solo post mortem, come ricordò anche Gianni Mura: in vita era costretto a scrivere anche esilaranti lettere al direttore ("Ho 40 anni, quattro figlie e la sensazione di essere preso per il culo") e a difendersi da chi gli contestava di andare in video con le polo del coccodrillo ai mondiali di Spagna 1982 perché poteva sembrare una forma di pubblicità occulta.

Andate a vedervi però l’intervista a Enzo Bearzot, subito dopo la finale dei mondiali vinta con la Germania Ovest, con Viola madido di sudore che dice: "L’Italia impazzisce, Enzo (...) Grazie anche da parte nostra". E poi, alla fine, per capire la sua genialità e il suo giocare d’anticipo vale sempre la pena riguardare l’intervista che fece a Gianni Rivera, salendo sul tram e girando per le vie di Milano. Un modo per raccontare il Milan e la sua città che aveva visto sempre da piazza Adigrat, dove era cresciuto proprio con Jannacci.

O ancora pensare a quanto potesse essere spregiudicato, quasi blasfemo, di fronte a un insipido Inter-Milan, trasmettere le immagini del derby di qualche anno prima: "Novanta minuti bruttissimi, un autentico derbicidio". E allora la soluzione: "Quando un appassionato di musica ritorna a casa deluso da un concerto che tanto prometteva, per rifarsi le orecchie sistema sul giradischi un pezzo classico: un espediente, insomma, che provveda ad un immediato riavvicinamento alla cosa amata. Noi, per rispetto dei 70 mila tifosi milanesi, abbiamo avuto più o meno la stessa idea, riaprendo l’album dei ricordi. Proponiamo un pezzo di cineteca, roba buona".

In pochi oserebbero ora fare qualcosa del genere. Anche se il racconto del calcio è diventato, in certi casi più ironico, sempre più urlato, ma ancora affetto dalla retorica del "ginocchio in disordine". E Beppe Viola, ricordano i suoi allievi, a chi scriveva nella redazione di Magazine ("il marchettificio" come lo chiamava lui) "ginocchio in disordine" metteva una multa di diecimila lire, la più alta. E poi tutti, con il gruzzoletto della sanzione, in salumeria a comprare il salame.

Che abbia rivoluzionato il linguaggio televisivo e scritto non ci sono dubbi. Che tutti abbiano seguito la sua lezione (termine per il quale inorridirebbe) è tutto da verificare. Anche perché essere come lui non è possibile e per avvicinarsi ci vuole talento. Il talento di Beppe Viola è fatto dello stesso impasto in cui è cresciuto, quella porca vita, che ti porta a scommettere (sapendo di perdere) spesso sul cavallo sbagliato, a tirare tardi fino al mattino in una Milano che non era ancora quella da bere, ma dove comunque si beveva e che ti (ri)portava sempre al Derby.

Lì, dove una generazione impareggiabile di comici è cresciuta senza badare all’orologio. Dove l’improvvisazione, appunto, era presa a pieni mani e a piena voce da quella porca vita, perché per raccontare bisogna frequentare (soprattutto di notte) bar e osterie. Ma anche salumerie e pasticcerie, come Gattullo a Milano, dove lui aveva creato con la sua accolita (Jannacci, Cochi e Renato, Teocoli e anche un giovane Abatantuono) l’Ufficio Facce. Quelli che sono soltanto le due di notte. Oh ye(a)h.

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