Mercoledì 24 Aprile 2024

Quel tram che si chiama nostalgia

Giovanni

Morandi

Tutti abbiamo avuto un autobus come amico. Come compagno di viaggi per andare da casa a scuola e da scuola a casa, un autobus, un tram o una metropolitana. Dove scherzare, innamorarsi, fare la corte alla compagna di scuola, ripassare i compiti, con la testa piena di pensieri assonnati o, al ritorno, affamati. Un autobus come amico e complice.

Per Emanuele fu anche di più, perché gli salvò la vita. Era d’ottobre quando portarono via i mille ebrei del ghetto di Roma ed Emanuele, che aveva 12 anni, riuscì a fuggire e a rifugiarsi sul tram che prese al volo. "Sono ebreo", bisbigliò al tranviere, che capì e lo tenne vicino a sé. Rimase su quel tram tre giorni e tre notti, di notte al deposito vi dormiva con una coperta addosso. I tranvieri si erano passati la parola per aiutare quel ragazzo. Poi su quel tram salì un parente e lo portò con sé. Emanuele Di Porto si salvò grazie al tram.

Oggi si è rovesciato il mondo. Quei bus, quei tram e quei metrò che portano i ragazzi da casa a scuola e da scuola a casa sono diventati una minaccia. I nostri figli ci salgono perché non hanno alternative ma lo fanno con la paura di essere contagiati. Il bus affollato che era occasione di dolci imprevisti, è diventato un posto pericoloso, un luogo da evitare, di cui è meglio non fidarsi. Non è più nostro amico ma complice del male che ci ha avvelenato l’esistenza, moltiplicato l’ansia e cancellato un’amicizia verso la quale finora non avevamo mai avuto motivo di pensare potesse tradirci.

Era un bus carico di bei ricordi. Mio caro numero 23, filobus traballante ma fedele, lento ma affidabile. Dove per quanto smentito dalle evidenze, secondo il bigliettaio, potevamo sempre essere fiduciosi, perché "avanti c’è posto".

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