Quei colossi di bronzo dimenticati in Libia

Le due figure ornavano l’Arco dei Fileni costruito dagli italiani nel 1937. Sono quel che resta del monumento abbattuto da Gheddafi

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di Andrea Cionci

Con quel braccio piegato, per 36 anni si sono riparati il volto mentre venivano sepolti vivi. Oggi, fissi nello stesso gesto, si riparano dall’accecante sole libico, forse ancora abbandonati all’aperto sul retro del Museo di Sirte. Parliamo dei due colossi bronzei che adornavano un capolavoro dimenticato dell’architettura razionalista: l’Arco dei Fileni. Quest’opera monumentale, in travertino italiano, sorgeva nel nulla desertico della Libia, sulla Via Balbia, la litoranea di 1.822 chilometri realizzata dal fascismo per unire la Tunisia con l’Egitto, passando per Tripoli. Voluta da Italo Balbo, governatore della Libia, nel ’37, venne a lui intitolata dopo la sua morte nei cieli di Tobruch nel 1940. All’architetto Florestano Di Fausto fu affidato il progetto di edificare un arco di trionfo che ricordasse i fratelli Fileni, giovani cartaginesi protagonisti di un mito che ricorda quello romano degli Orazi e dei Curiazi.

Si tramanda che per stabilire il confine tra Cartagine e Cirene, colonia greca, nello sconfinato deserto della Sirte, fu deciso che due atleti sarebbero partiti di corsa dalle rispettive città e, nel punto del loro incontro, sarebbe stato fissato il confine.

Avendo i velocissimi Fileni ampiamente superato la metà della distanza, vennero accusati dai corridori cirenaici di essere partiti in anticipo rispetto agli accordi. Indignati, i Fileni giurarono la propria lealtà e si dichiararono disposti a essere sepolti vivi per stabilire con i loro stessi corpi il confine, come avvenne. Sulle loro tombe i Cartaginesi eressero poi due altari, noti come Arae Philaenorum.

La storia fu interpretata dall’architetto Di Fausto per segnare il confine tra Cirenaica e Tripolitania: sopra l’arco, altissimo e maestoso, vennero collocate in una nicchia orizzontale le statue bronzee dei due cartaginesi, ritratti come sepolti vivi, sovrastati da un frontone con tre cornici sovrapposte a simboleggiare l’ara sacrificale e gli strati di terreno sotto i quali vennero ricoperti. Nonostante l’iscrizione di Orazio "Alme Sol, possis nihil urbe Roma visere maius" ("O almo Sole, possa tu non vedere al mondo nulla maggiore di Roma"), il monumento era un omaggio alla storia degli antichi libici.

Infatti, Re Idris I, pur nemico dell’Asse, lo conservò gelosamente traducendo in arabo la scritta. Ci volle Gheddafi per abbattere, nel 1973, quest’opera d’arte irripetibile: si salvarono solo i bronzi e pochi altorilievi. Di Fausto era già morto da otto anni e non ebbe questo dispiacere. "Era un gran viaggiatore – spiega la nipote Bernadette – uomo solitario, ma affettuosissimo in famiglia, Zio Tatano ha disseminato l’Italia di capolavori, come la Villa Gigli a Loreto, o la Cappella delle reliquie in S. Croce a Roma. Ma fu nell’Egeo, in Albania e nelle colonie che diede il meglio di sé, soprattutto in Libia".

Nel 2007, quando l’allora ministro dei Beni culturali Rutelli restituì a Gheddafi la Venere di Cirene, trovata dagli italiani nel 1913 in territorio libico, lo storico Romolo Augusto Staccioli, della Sapienza di Roma, avanzò la proposta: "Noi gli ridiamo quella meraviglia ellenistica, che era peraltro esposta come si doveva nel più prestigioso museo archeologico italiano; loro ci rendano le statue dell’Arco dei Fileni, (abbandonate alle intemperie, ndr) qualcosa di valore inferiore perché non risalgono all’età ellenistica, ma al XX secolo e che, pure, sono un pezzo della storia italiana in Libia e della nostra arte del Novecento". Ne avete sentito più parlare?

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