Quando il Gattopardo danzava tra i veleni italiani

Netflix prepara una serie tratta dal capolavoro. Sessant’anni fa il romanzo e il kolossal divisero il Paese: allora l’arte era politica

Quando  il Gattopardo danzava tra i veleni italiani

Quando il Gattopardo danzava tra i veleni italiani

di Chiara Di Clemente

Difficile pensare che questa volta tutto cambi perché tutto rimanga com’è. Qualcosa di diverso accadrà di sicuro. Perché Il Gattopardo si trasforma in The Leopard, perché il kolossal costato nel ’63 tre miliardi con un dispendio monumentale di comparse, ricostruzioni storiche accuratissime e preziose, mesi di lavorazione, scritture e riscritture della sceneggiatura e chilometri e chilometri di pellicola Palma d’oro a Cannes diviene ora una serie digitale in sei puntate. Qualcosa di diverso accadrà di sicuro perché alla regia al posto di Luchino Visconti c’è l’inglese Tom Shankland, e per il cast – al posto di Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon – pare siano stati scritturati Kim Rossi Stuart, la figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel Deva e Saul Nanni. Qualcosa di diverso accadrà di sicuro semplicemente perché non siamo più nell’Italia di sessant’anni fa in cui arte e ideologia politica vivevano l’una dell’altra in una simbiosi ora perversa ora magica ma che finì comunque per portare alla creazione di capisaldi della nostra cultura, mentre l’Italia dell’arte e della politica di oggi cos’è mai? Una lite nella chat di Morgan e Sgarbi? Una Venere di Botticelli travestita da Chiara Ferragni?

1954. "Sul corso principale di San Pellegrino Terme arrivano un uomo di 53 anni (che nel ’54 sono davvero tanti), accompagnato da un altro signore alto, corpulento, con i baffetti, il bastone da passeggio, taciturno, pallido in volto... Il primo è Lucio Piccolo, barone di Calanovella. Il secondo è suo cugino, Tomasi, principe di Lampedusa... Tomasi indossa, a luglio, un cappotto di cammello", chiuso fino all’ultimo bottone. Lo fa per nascondere il suo completo gessato, che è liso. Quello a San Pellegrino Terme è il primo incontro – raccontato da Francesco Piccolo nel suo ultimo libro La bella confusione (Einaudi) – tra il principe siciliano e un importante consesso di letterati dell’epoca (Bassani, Comisso e Parise, Piovene e Bettiza, Ungaretti e Zanzotto), con i più affermati che “presentano“ a un pubblico di editori e giornalisti nuovi – e si presume giovani – talenti da loro scelti. Il “giovane talento“ scelto da Montale è il poeta Lucio Piccolo ed Eugenio scopre solo in quell’occasione – con estrema sorpresa – che Piccolo giovane non è per niente. "Un giornalista chiede a Tomasi che mestiere fa. E lui: il principe. E vabbè, dice quello, ma per vivere? Faccio il principe, ribadisce". Poi però confida: piacerebbe anche a me scrivere qualcosa. Cosa? Un romanzo storico.

Come è andata si sa. Tra la fine del 1954 e il 1957 Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrive Il Gattopardo. Nessuno lo vuole pubblicare: né Arnoldo Mondadori, né Einaudi. Alla morte di Tomasi – il 23 luglio 1957 – la vedova non si arrende: manda il manoscritto alla figlia di Benedetto Croce, Elena, che prima lo perde e lo dimentica, poi in un secondo tempo lo fa arrivare a Giorgio Bassani. Bassani se ne innamora e corre da Giangiacomo Feltrinelli che decide di pubblicarlo anche se: "Per Feltrinelli era il romanzo scritto da un aristocratico, e per un marxista non era un buon punto di partenza: questo pregiudizio avrebbe anticipato tutto quello che sarebbe stato detto dopo", scrive Piccolo. Quello che succede dopo è una specie di romanzo nel romanzo, che la racconta lunghissima sull’intreccio tra letteratura, cinema e politica che animava l’Italia di quegli anni. Spinto dalle critiche di Sciascia e di Vittorini, il Pci di Togliatti decide di stroncare ufficialmente Il Gattopardo – l’autore non ha una visione progressista; il suo lavoro non può che essere reazionario – a fronte del successo crescente che il romanzo sta riscuotendo in Italia (compresa la vittoria postuma dello Strega). Ma c’è un ma. Dalla Francia i più grandi intellettuali marxisti, prima Louis Aragon poi addirittura György Lukács, esaltano l’opera, e di conseguenza il Partito comunista sovietico decide di stamparla in russo. Che fare, a quel punto?

Prima idea di Togliatti: il romanzo verrà pubblicato in Urss con il pieno appoggio del Partito comunista italiano. Seconda idea: alla regia del film che ne sarà tratto (coi diritti già in mano a Goffredo Lombardo della Titanus e con Mario Soldati ed Ettore Giannini già contattati per dirigerlo) chi altri se non il “compagno“ Visconti? Sarà lui che “sposterà il racconto dall’immobilismo reazionario a una più complessa analisi dei fatti storici del Risorgimento“. Sarà lui che salverà capra e cavoli.

Visconti però finirà per trasformare sul set la storia del principe di Salina nel ritratto autobiografico di un anziano aristocratico in declino, con la scena da ballo che lascia trapelare l’imminenza della morte di un’epoca: il senso è tenere a distanza la politica, accettare la fine. "La verità abita la finzione", dice Lacan. "L’arte come prodotto fattuale di un’attività di pensiero (fantasia e intelletto), proprio perché strettamente connessa con una realtà in continuo trasformarsi, si pone, in primo luogo, come “appropriazione“ della realtà. Con l’arte l’uomo si appropria del reale per entrare in rapporto con il mondo circostante e modificarlo", scriveva Edoardo Bruno nel suo saggio Film come esperienza. Il Gattopardo appartiene all’arte di Visconti come appropriazione e mutazione della realtà. The Leopard ai tempi della Venere Ferragni, all’industria di Netflix.

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