Quando Cohen cantò "Suzanne" ai soldati

In cerca della sua “patria mitica“, l’artista pacifista e maudit partecipò nel ’73 alla guerra del Kippur. Esibendosi per le truppe israeliane

Leonard Cohen (. 1934-2016). nel ’73 tra i soldati istraeliani nella guerra del Kippur

Leonard Cohen (. 1934-2016). nel ’73 tra i soldati istraeliani nella guerra del Kippur

C’è un solo biglietto per quel volo che da Atene va a Tel Aviv. Leonard Cohen ha 39 anni, è l’ottobre del 1973 e compra quel biglietto. Israele, la sua patria mitica (così l’identifica e così la chiama), è in guerra. È la guerra del Kippur. Che cosa c’entra un cantautore, quel cantautore accostato al binomio maudit (sesso e droga) con una guerra? E soprattutto non è un pacifista?

Quando Cohen decide di prendere quell’aereo per raggiungere Tel Aviv e poi le truppe israeliane nel deserto, non pensa all’elmetto, al fucile, alla divisa. Pensa invece che debba fare qualcosa. L’unica cosa che sa veramente fare: cantare, cantare per l’esercito in guerra.

La sua vita si sgretola, la sua carriera forse. Nella primavera del 1973, a un anno esatto, dall’altro grande raduno rock, quello dell’isola di Wight, lui pensa seriamente al ritiro. Lo dice apertamente in un’intervista a Melody Maker. Continua a vivere a Idra, l’isola greca in cui si era rifugiato, dove era sbocciato e sospeso l’amore per Marianne (ma che continuerà fino all’ultimo giorno della vita di entrambi), al suo fianco ha Suzanne. Che non è quella della canzone: quella è una ballerina di Montreal. La chiama moglie, anche se non si sono mai sposati, e c’è Adam, il loro figlio. Sente alla radio che la sua patria mitica è in guerra.

Lui, in realtà, si chiama Eliezer ha-Cohen, suo nonno è un rabbino erudito, è cresciuto nella sinagoga di Montreal. Si è formato sulla Bibbia ebraica e molte sue canzoni risentono di questa formazione. In Story of Isaac del 1969 canta, ispirandosi ai testi sacri: "Quando tutto è ridotto in polvere, ti ucciderò se devo. Ti aiuterò se posso". Non è un pacifista di quelli senza se e senza ma. Non è John Lennon, per intendersi. Ed espliciterà questo concetto in un’intervista: "Io non ho una canzone come Give peace a chance". E tutto questo lo dice sette mesi prima della guerra del Kippur. E soprattutto non ha mai rotto, nonostante la vita da artista quasi maledetto, il cordone ombelicale con la sua religione. Qualche anno prima nel 1964 in un’altra intervista aveva detto: "Non siamo più in grado di guardare il cielo, abbiamo perso il nostro slancio per la verticalità, i romanzieri ebrei sono sociologi portati all’orizzontalità". Risponde a tono anche a un altro canadese, di formazione ebraica, come Mordecai Richler, l’autore de La versione di Barney, che teorizza a un certo punto come Stati Uniti e Canada debbano diventare una sola cosa, prendendo le distanze dalla comunità ebraica: "I canadesi – dice Cohen – sono come gli ebrei: si interrogano continuamente sulla loro identità".

C’è tutto questo dietro all’esile bagaglio che Cohen porta con sé per arrivare nel deserto. Di questa storia, di questo “contro tour” in cui lui, prima di intonare, con una camicia kaki addosso, Suzanne di fronte ai soldati, dice "dovrebbe essere ascoltata al caldo di una stanza, con un bicchiere in mano e una donna accanto e spero davvero che possiate tornare a casa al più presto", ci sono rimaste poche tracce. Ha ricostruito quasi tutto Matti Friedman in un libro Il canto del fuoco (Giuntina edizioni), riuscendo a mettere le mani anche sull’unica vera prova di quel tour clandestino: un manoscritto di 30 pagine dello stesso Cohen conservato alla biblioteca McMaster University a Toronto.

Come Leonard riuscisse a comunicare coi soldati e loro a seguirlo rientra in quella che può definirsi mistica musicale: lui non conosce l’ebraico e i soldati non sanno l’inglese, ma cantano in coro le sue canzoni. Cohen arriva nei campi militari con un camion, fuma a ripetizione le sue Gitanes, accovacciato a terra, mentre viene allestito un palco con le casse delle munizioni e di notte i fari dei camion servono come luci di scena. E a chi gli chiede che cosa sia venuto a fare, risponde: "Nulla, sono solo un intrattenitore". Da quell’esperienza nascerà Lover lover lover, che scrive proprio sul fronte e che finirà nell’album New skin for the old ceremony dell’anno successivo, 1974: "Padre, cambia il mio nome. Quello che ho ora è ricoperto di paura, sconcezza e vergogna". E forse era proprio quello che Cohen cercava con quel tour clandestino.

 

 

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