Profondo russo, tra i fantasmi della Kolyma

Viaggio al termine della Siberia sulle orme di Šalamov: Hugo-Bader racconta figli e nipoti di vittime e carnefici dello stalinismo

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di Lorenzo Guadagnucci

Forse bisogna davvero spingersi fino alla Kolyma per capire la Russia, o almeno per avvicinarsi a quel senso della storia e della vita – insieme affascinante e spaventoso – che sembra l’anima di un popolo enigmatico e tormentato. La Kolyma, punta estrema della Siberia, è uno dei luoghi più inospitali di quell’immenso paese, una terra di neve, ghiaccio e temperature insopportabili, e solo evocarne il nome – Kolyma – faceva e può ancora fare paura. È stato Varlam Šalamov, coi suoi Racconti di Kolyma, a far conoscere al mondo il sistema concentrazionario più duro e più spietato dell’era sovietica. Aleksandr Solženicyn, col suo Arcipelago Gulag (1974), aveva già delineato la storia di repressione e violenza seguita alla Rivoluzione d’ottobre, ma è stato il libro di Šalamov a descrivere in dettaglio la vita quotidiana alla Kolyma – "l’ultimo cerchio del sistema", secondo Solženicyn – un insieme di oltre cento campi di lavoro, fra miniere d’oro e d’uranio, cantieri stradali e di altre infrastrutture. Alla Kolyma finivano i dissidenti, le vittime delle purghe staliniane, i sospettati e gli irregolari, un’umanità che veniva sottoposta a privazioni estreme, turni di lavoro estenuanti, umiliazioni incontrollate, secondo un progetto di annichilimento che costò la vita, secondo le stime, a circa tre milioni di persone.

Šalamov, simpatizzante trotskista, vi trascorse ben sedici anni. Fu liberato nel 1953, dopo la morte di Stalin, e in seguito scrisse i suoi racconti essenziali e crudi, senza mai liberarsi dalle ossessioni post Gulag, come il mangiare smodato e l’accumulo di cibo, fino a nascondere croste di pane sotto il materasso. Morì povero e malandato nel 1982, senza aver visto pubblicato il suo capolavoro, uscito in Russia solo nel 1987. Oggi I racconti di Kolyma sono un testo chiave del ‘900, una testimonianza imprescindibile sullo stalinismo, e anche un elogio della forza morale di chi seppe opporre alla tirannia una resistenza fisica e spirituale, coltivando nel Gulag la poesia, l’arte e l’amore per la vita.

E oggi? Che cosa resta alla Kolyma di quella storia, di quelle storie? A leggere il libro reportage I diari della Kolyma, scritto dal giornalista polacco Jacek Hugo-Bader, uscito nel 2011 in Polonia e quest’anno in Italia (editore Keller), si ha la sensazione che un filo sottile attraversi la storia russa, dagli anni Trenta fino a oggi, e non si sia mai spezzato. Non perché alla Kolyma vi siano ancora dei veri Gulag, ma perché le vicende di allora, gli orrori durati decenni, l’epopea dei sopravvissuti, le storie personali dei vecchi reclusi e dei vecchi abitanti sembrano essersi sedimentati nella memoria e nei luoghi, senza un vera rottura di continuità.

Hugo-Bader ha percorso i duemila e rotti chilometri della Strada della Kolyma – dal famigerato porto di Magadan alla città di Jakutsk – una “pista” aperta nella neve e nel ghiaccio, e ha incontrato nel suo viaggio un’umanità stralunata e fatalista, un popolo di operai nelle residue miniere d’oro, di figli e nipoti degli internati, ma anche personaggi attratti dal fascino oscuro e sinistro della Kolyma, un luogo alla fine del mondo, dove d’inverno le temperature si misuravano senza termometro: "Se la nebbia è gelata – scrive Šalamov in uno dei suoi racconti – ci sono 40 gradi sotto zero; (...) se la respirazione è rumorosa e difficile siamo a meno 50. Sotto i 55 gradi lo sputo si gela in volo".

Nel suo picaresco viaggio Hugo-Bader incontra figure a dir poco pittoresche e – novello Kapuscinski, che da qui passò per il suo Imperium – le racconta col gusto dell’epopea ma senza perdere il desiderio di comprensione. Colpice per esempio la vicenda di Mme Marianne, figlia di un oppositore dei bolscevichi spedito a suo tempo – lei bambina – da qualche parte in Siberia, poi sposa di un francese e a lungo vissuta a Parigi, la quale, rimasta vedova, sceglie di trasferirsi proprio alla Kolyma, forse ripensando al padre sparito nel nulla, forse attratta da quell’indefinibile senso della storia collettiva che sembra animare i russi, come se non si voltasse mai davvero alcuna pagina del priprio passato, per brutto e doloroso che sia.

Colpisce altrettanto la figura di Natalia Nikolaevna, figlia adottiva dell’uomo nero della Kolyma, Nikolaj Ežov, il braccio armato di Stalin, detto “Nano sanguinario”, un uomo spietato e fanatico – "pregava lo spirito di Stalin, un uomo vivo!", dice la figlia – poi finito in disgrazia e fucilato nel 1940. L’aura diabolica del padre, il terrore suscitato dal suo stesso nome, hanno condizionato la vita della figlia, facendo di lei un’emarginata, finché non fu “riabilitata” (di che cosa, poi?) alla morte di Stalin, quando scelse, manco a dirlo, di tornare alla Kolyma, teatro dei mostruosi crimini del padre.

La Kolyma come un destino, con il passato che non passa e condiziona anche il presente; un luogo di infiniti orrori ma anche di straordinaria forza d’animo, di invincibile resistenza spirituale. Irina Sirotinskaja, l’ultima compagna di Šalamov, lo spiega a Hugo-Bader: "Varlam diceva sempre che la vita senza amore non ha senso".

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