Mercoledì 24 Aprile 2024

"Primo o terzo? La mia vita ha un’altra Meta"

Ermal racconta il suo Festival: "In realtà questa volta abbiamo vinto tutti. Perché ha vinto la musica. E dentro di me, la semplicità"

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di Andrea Spinelli

Anche se la definisce una canzone senza effetti speciali, Ermal Meta sa benissimo di aver lasciato con Un milione di cose da dirti ancora una volta la sua impronta sul Festival. "Ho seguito il mio istinto" assicura lui, quarant’anni fra un mese. "Il Festival lo vivo come una gara con me stesso piuttosto che con gli altri, poi naturalmente ci sono le classifiche e uno non può far finta di non vederle. Alla vittoria, però, non ci ho fatto la bocca neppure per un attimo. Certo, sera dopo sera ero orgoglioso di vedermi al primo posto perché significava che la canzone era arrivata bene al pubblico e alle giurie".

Alla fine si è piazzato terzo.

"Sono scivolato dal primo al terzo posto, non al ventesimo. Non avevo la velleità di un altro Eurovision; giusto che ci vadano i Maneskin, si tratta infatti di quelle esperienze che farle una volta magari è poco, ma due è decisamente troppo".

Ha ragione, dunque, Pippo Baudo quando dice che Sanremo è quel conclave in cui entri papa ed esci cardinale.

"Certamente. Anche se io non sono entrato neppure da papa; quel titolo me l’ha dato la giuria demoscopica la prima sera e l’ho accolto controvoglia ben sapendo che, quando sei lì in alto, diventi il nemico da buttare giù".

Però in No satisfation, un brano del suo nuovissimo album Tribù urbana dice che per chi vince e chi perde il premio è uguale.

"Assolutamente sì. L’ho scritto pure il giorno dopo la fine del Festival: abbiamo vinto tutti. Perché ha vinto la musica. Avere un palco su cui salire e cantare le nostre canzoni è stato il nostro trionfo. Forse neppure nel 2018, tornando a casa col primo premio in valigia, mi sono sentito così felice. Allora in fondo avevamo delle aspettative, stavolta no, i bookmaker mi davano a 16. Altro che papato. Poi mi sono ritrovato primo e quando vai in alto puoi solo scendere".

Un milione di cose da dirti l’ha scritta nel 2018, ai tempi di Non mi avete fatto niente, poi però è finita nel cassetto. La pandemia ha cambiato qualcosa?

"No, la versione definitiva è identica al provino. La fatica enorme è stata quella di arrangiare il pezzo, perché non accettava alcun tipo di suono. Se c’è un effetto che ha avuto su di me l’isolamento è stato quello di farmi riscoprire le cose semplici e un gran bisogno di andare all’essenza delle cose. Ho pensato addirittura di lasciare il brano piano e voce, ma sarebbe stato un peccato rinunciare all’orchestra. Tutte le canzoni del disco mi rappresentano, ma questa è quella che meglio esprime quello stato d’animo".

Quando compone afferra subito l’efficacia di visioni come il "cuore a sonagli" e gli "occhi a fanale"?

"Quando scrivo l’unica cosa a cui penso è se quel che sto pensando mi dà la voglia e il trasporto necessario ad andare avanti. Se mi emoziono io, pure qualcun altro riuscirà a farlo. Se utilizzassi artificiosamente una parola o un pensiero per provare a colpire lo spettatore, sono sicuro che sbagliarei".

Il momento più difficile della sua vita qual è stato?

"Probabilmente a 13 anni lasciare l’Albania per l’Italia, Bari, dovermi adattare a un nuovo paese, dover imparare a codificare le mie emozioni e i miei pensieri in un un’altra lingua. Ho iniziato a scrivere anche per questo. Perché mi veniva più facile: mi vergognavo a parlare a voce alta in una lingua che non era la mia".

Cos’era per lei l’Italia vista dall’altra sponda dell’Adriatico?

"Qualcosa di simile all’America. Paesi lontani che non sapevo neppure dove si trovassero. Poi è diventata la mia nuova casa". Qual è la tribù cui fa riferimento l’album?

"Una comunità limitata che però l’aggettivo urbana dilata. Penso che una delle più grandi paure dell’essere umano è tornare a casa e non trovare nessuno. O almeno è la mia paura. E la tribù ti salva".

Che effetto le fanno queste canzoni?

"Mi fanno pensare alle luci della città. Mi immagino in mezzo a un gruppo di persone bisognose di stare insieme, di riabbracciare la libertà. E di ritrovare, con la normalità, un po’ anche se stesse".

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