Il primo cellulare compie 40 anni. Com'èra il Motorola, idea ispirata da Star Trek

Nel 1983 entrava in commercio il primo (voluminoso) apparecchio: cominciò una rivoluzione che nasconde ancora molte insidie

In principio fu Star Trek , o meglio il capitano Kirk che parlava tramite un avveniristico telefono senza fili. Erano gli anni Sessanta e soprattutto era fantascienza, ma – si sa – le idee rivoluzionarie nascono spesso da fugaci intuizioni, purché seguite da tenaci intraprese. A Martin Cooper andò proprio così. Il telefilm ambientato sulla navicella spaziale gli ispirò l’idea di mettere in pratica l’involontario suggerimento del capitano Kirk e da buon ingenere, all’epoca quarantenne, si mise al lavoro; erano anni magici per l’innovazione tecnologica e in poco tempo portò a termine il progetto.

Martin Cooper, 94 anni, nel 2007 con il prototipo del cellulare che inventò nel 1973
Martin Cooper, 94 anni, nel 2007 con il prototipo del cellulare che inventò nel 1973

Il 3 aprile 1973, quindi cinquant’anni fa, toccò inevitabilmente a lui collaudare sul pianeta Terra il telefono importato dalla fantascienza: impugnando un voluminoso apparecchio, pesante circa un chilo e mezzo, chiamò da una strada qualunque un collega ingegnere, Joel S. Engel, capo della ricerca ai Laboratori Bell e aprì così una nuova era della tecnologia e delle relazioni all’interno della comunità umana: per la prima volta uno strumento metteva in comunicazione non due luoghi, bensì due persone.

In verità, per poter parlare davvero di rivoluzione, toccò aspettare altri dieci anni, perché la storia della tecnologia è piena di prototipi mai diventati d’uso comune. E perciò la data ufficiale di nascita del telefono cellulare è un’altra: 6 marzo 1983, esattamente 40 anni fa, quando il Motorola Dyna Tac 8000 X fu esposto nelle vetrine dei negozi specializzati, quelli dove si vendevano elettrodomestici e altre tecnologie d’uso più o meno comune. Quell’apparecchio, rispetto al prototipo collaudato da Cooper, pesava quasi la metà, circa 800 grammi, ma era comunque una specie di mattone, come fu infatti ribattezzato: era spesso 25 centimetri, aveva una lunga, inquietante antenna e vantava – si fa per dire – prestazioni che oggi paiono assurde: dieci ore per la ricarica delle batterie, trenta minuti possibili di telefonate, una rubrica limitata a trenta numeri. Il costo era tale da spaventare chiunque, tranne una legione di danarosi tecno-entusiasti: 3995 dollari. Un prodotto d’élite, visto – per dire – in mano a manager e affaristi nel film Wall Street (1987) e nelle auto o sulle scrivanie (in tasca non entrava proprio) di vip o aspiranti tali: fatto sta che Motorola piazzò circa trentamila esemplari del suo modello e si impose sul nascente mercato.

Non durò molto , perché nel mondo della tecnologia contemporanea il tempo corre veloce, e così venne il momento dei Nokia (do you remember?) e poi, ma siamo già agli anni Duemila, cominciò la stagione degli smartphone, i telefoni intelligenti che hanno cambiato il mondo un’altra volta, portando nelle tasche di milioni poi miliardi di persone altrettanti piccoli computer, che conservano la capacità di telefonare, ma come funzione ormai marginale.

In quarant’anni i progressi tecnologici sono stati stupefacenti e basta un colpo d’occhio per apprezzare la mole di conoscenze accumulata per passare dai “mattoni“ Motorola a uno qualsiasi degli ultrasottili moderni cellulari, pardon smartphone. Ma questo è solo l’hardware, la parte materiale del cambiamento. E non è la più importante. Lo aveva intuito Italo Calvino, al tempo delle Lezioni americane, opera postuma uscita nel 1988: "È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza dell’hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi".

Oggi, quarant’anni dopo, mentre Martin Cooper dall’alto dei suoi 94 anni può ben sorridere pensando al successo della sua creatura, l’umanità è alle prese con una fase nuova: il software si è così evoluto da dialogare a tu per tu con il software più avanzato che si conosca, il cervello umano. È una sfida imprevista e piena di insidie. Come ammoniva, fra gli altri, Ivan Illich, geniale critico della modernità, accade spesso che il successo di una tecnologia, come di un’istituzione o di un sistema di saperi, si traducano nel proprio opposto, con effetti nefasti. Nella società dei consumi priva di senso del limite, diceva più o meno Illich, la cura della salute e il grande uso di farmaci alla fine generano malattia, la scuola-istituzione produce ignoranza, la diffusione dell’automobile ostacola gli spostamenti, e così via.

Noi, figli e nipoti di Cooper, abbiamo in tasca strumenti prodigiosi ma ne siamo spesso schiavi: ne abusiamo al punto di diventarne appendici. E intanto il software digitale, nella sua più moderna espressione, diventa una forma d’intelligenza che mette in crisi quella umana. Aspettiamoci – forse auguriamoci – un’altra rivoluzione.

 

 

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