
. Daria Bogdanska, Nero vita (Mesogea). In alto l’autrice polacco-svedese e Luigi Chiarella, autore di Risto Reich (Alegre)
Primo Levi ne La chiave a stella (1978) scrisse una frase che suscitò qualche discussione: "L’amare il proprio lavoro (...) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra". Replicò a stretto giro di posta lo scrittore operaio Tommaso Di Ciaula (autore nel 1978 di Tuta blu), contestando a Levi una visione idealizzata e astratta del lavoro. Il contrasto Levi / Di Ciaula è un buon esempio della dialettica fra letteratura sul lavoro e letteratura working class, scritta quest’ultima da chi vive la condizione operaia e non da intellettuali prestati all’industria.
Lo spettro di Levi è comparso più volte nelle tre giornate del terzo Festival di letteratura working class, chiuso ieri a Campi Bisenzio al presidio operaio alla ex Gkn. È un Festival, quello diretto da Alberto Prunetti, che porta alla luce protagonisti inaspettati: dai margini e “dagli abissi” (direbbe Jack London) della società capitalistica, emergono narrazioni che mettono in discussione i canoni letterari, le mode culturali, le pigrizie accademiche. Sono nuovi scrittori e poeti, lavoratori e precari, i quali – dice Prunetti – "appartengono alla working class per condizione personale e familiare ma fanno un passo in più: dall’io riescono a passare al noi", a dare cioè dimensione collettiva al proprio racconto, senza cadere nell’autobiografismo, nell’autofiction che ha riempito gli scaffali delle librerie.
La letteratura working class è dunque il campo delle sorprese, dell’apertura a sguardi nuovi sul mondo. A Campi Bisenzio, fra le altre cose, ha fatto irruzione uno scenario poco noto e ancora meno meditato: la lotta di classe fra i fornelli, l’inferno delle cucine dei ristoranti, il neoschiavismo che si cela dietro i sorrisi di convenienza dei camerieri che porgono menu e ricevono comande.
Daria Bogdanska, polacca immigrata in Svezia una dozzina di anni fa, oggi trentasettenne, ha raccontato in una concitata ma anche poetica graphic novel (Nero vita, Mesogea) il suo complicato impatto col “paradiso” dello stato sociale nordico. Da immigrata di origine europea, ha scoperto di appartenere allo stadio intermedio dello sfruttamento: nei ristoranti in cui faceva la cameriera, la paga più bassa (45 corone) toccava agli immigrati da Pakistan, Bangladesh e altri paesi lontanissimi; la più alta a camerieri e cameriere svedesi (60 corone); a quelli come lei, di pelle bianca e immigrati “da paesi vicini” spettavano 50 corone. Tutto naturalmente al nero, senza contratto, senza orari fissi e restando ben al di sotto della paga minima sindacale.
In una scena del fumetto, Daria si rende conto, quasi all’improvviso, d’essere una schiava, sfruttata sul lavoro e anche privata dei documenti anagrafici essenziali da assurde leggi sull’immigrazione, utili a mantenere gli stranieri in uno status anche legale di soggezione. Bogdanska fa sua la “lezione” di Prunetti: il suo Nero vita non è un diario della sofferenza ma una storia collettiva: racconta la gioventù post punk di Malmoe, il mondo dei precari e dei lavoratori immigrati e soprattutto ripercorre la sua coraggiosa lotta contro il padrone del ristorante, cominciata con l’atto più sovversivo: iscriversi a un sindacato... A Campi Bisenzio, sollecitata a commentare la frase di Levi, Bogdanska ha detto di avere trovato un po’ di felicità non nel lavoro, "ma nella vicinanza e solidarietà con i colleghi". Solo lì, nella comune lotta per i propri diritti, Daria si è sentita una persona umana nella sua pienezza.
Sul punto – la felicità nel lavoro – Luigi Chiarella, autore di un brillantissimo romanzo (Risto Reich, Alegre) sulle dinamiche di potere in pizzerie e ristoranti in Austria, non è stato meno netto, semmai più ironico di Bogdanska: "Non credo nel paradiso terrestre…" Nelle “Riflessioni lungo i bordi” messe in coda al suo libro, del resto, Chiarella scrive che "dietro a un sorriso di una qualunque cameriera o cameriere c’è – molto probabilmente – un attacco di panico, una crisi di pianto, uno stress che andrà smaltito".
Tutto questo mentre il cibo, la cucina, i ristoranti occupano spazi sempre più grandi nell’immaginario collettivo, fra programmi di cucina e serie tv, talent show e chef trattati come star dello spettacolo. E poi c’è l’odio. L’odio di classe, ma non solo. "A un certo punto ho odiato tutti – ha detto Chiarella dal palco del Festival – i miei colleghi camerieri, quelli della cucina, i padroni. Poi ho capito che è un sentimento vicino all’amore. Nasce da qualcosa che manca, cioè una connessione sana con il lavoro. L’odio alla fine mi permette di ragionare; non lo voglio subire, né esercitare, ma lo voglio usare. Ho fatto teatro: è come la crudeltà in Artaud, ripresa anche da Carmelo Bene". L’odio (di classe) come forma di conoscenza e consapevolezza. Benvenuti nella letteratura working class.