Venerdì 19 Aprile 2024

Più che un classico: Canova il rivoluzionario

Nel nuovo libro Vittorio Sgarbi racconta lo scultore. Non solo vita e opere, ma anche le feroci stroncature e le riletture innovative

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Nel 1947, Roberto Longhi, il più grande critico d’arte di quel tempo, scrive una seconda Officina ferrarese, dieci anni dopo: è il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, che è il modo in cui lui viene commentando le opere esposte da Rodolfo Pallucchini nella grande mostra a Venezia del 1946. Pallucchini ha tirato fuori dai depositi le opere, come la Tempesta di Giorgione, che erano state protette con i sacchi, e nascoste a Sassocorvaro e altrove, per salvarle dalla violenza. Longhi nel suo libro dice cose bellissime su molti artisti – Bellini, Rosalba Carriera, Canaletto, Bassano – e cose bruttissime su Tintoretto e su Tiepolo. Ma il giudizio peggiore è per Canova: e alla fine, tutto finito, non resta che "Antonio Canova, lo scultore nato morto, la cui mano è all’Accademia, il cui cuore è ai Frari, e il resto non so dove". Un epitaffio. Ucciso Canova per sempre. In effetti la mano di Canova è all’Accademia, il cuore è ai Frari – nel monumento suo –, e il resto non sappiamo dove sia; sarà comunque sepolto a Possagno. Ecco, quest’uomo è spezzato, distrutto come la sua Gypsotheca sotto i bombardamenti del 1917.

Che fare? Come mettersi contro Longhi? A quel tempo aveva già insegnato a Bologna e stava per andare a Firenze; era il più prestigioso critico d’arte, amato dai giovani, ed era stato vicino anche alle avanguardie futuriste. Il fascismo aveva guardato alla rivalutazione del mondo classico con un’attenzione forse convenzionale, ma senza discussione, anche per Canova. Ora la tempesta improvvisa, peggio delle bombe: Canova viene ucciso da Longhi.

Dieci anni dopo questa stroncatura, nel 1957, si celebra il bicentenario della nascita di Canova, nato nel 1757, con una mostra ai Musei Civici di Treviso. La mostra è concepita sotto lo spettro di Longhi, tra fantasmi e maledizioni, e il direttore Luigi Coletti deve trovare una soluzione. Che troverà impaginando una mostra di fotografie. Solo fotografie, non le opere.

La mostra era costituita di fotografie di marmi – prevalentemente – e di gessi, fatte dallo studio del fotografo Fini ed esposte nel Salone dei Trecento. Era un modo per riassumere, come in un sussidiario, l’arte di Canova senza spostare il fondo di Possagno, senza poter far arrivare marmi dai vari luoghi del mondo, dall’Inghilterra, dalla Russia, da Roma, rappresentando però compiutamente la sua opera. L’allestimento fa una certa tenerezza. Siamo nel 1957. Ci sono le tende, queste grandi fotografie, e poi piantine per terra da salotto borghese.

È singolare, perché se c’è un autore che è adatto ai fotografi questo è Canova, che trova la quasi inevitabile continuazione della sua visione così ferma. La fotografia rende immobile l’immagine e la ferma come in una condizione di morte.

Nel 1946 c’è stato Longhi, nel 1957 la mostra trevigiana, e poi si arriva alla seconda metà del secolo scorso con una serie di avanzamenti molto significativi. Mario Praz fu il primo a studiare non soltanto Canova ma anche il gusto neoclassico e ad aprire un’interpretazione moderna tutta favorevole a Canova, contro Longhi. Lo accompagnò un grande studioso, seppur più teoretico che conoscitore, Giulio Carlo Argan, il quale ebbe l’intuizione di indicare che la modernità di Canova è nell’aver inventato una forma, un’idea che poi si può moltiplicare all’infinito, ovvero l’inizio del design, appunto.

Si può dire che negli ultimi anni la critica abbia voltato le spalle a Longhi e la storiografia lo abbia riconsacrato. Dopo Honour tutti gli studiosi, a partire da Elena Bassi, Alvar González Palacios e Massimiliano Pavan, danno a Canova il più alto grido. E così la vicenda finisce. È nata in maniera un po’ drammatica; e oggi, con le celebrazioni del 2022, si chiude, in un’apoteosi, il riscatto dall’onta longhiana. Abbiamo salvato Canova.

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