Pérez-Reverte
LA RISATA DEI RATTI
L’ho rivista per caso, cercando un’altra cosa, in un vecchio libro sui fotografi di "Life". E pensate un po’. Ho il mio album di foto infami: foto che a volte sono perfino vere, fatte da me stesso. E salta fuori che un’immagine che conosco fin da bambino, scattata da un altro in una guerra che non ho nemmeno vissuto, continua a impressionarmi. Magari è un bene che sia così, e il giorno in cui quella foto smetterà di colpirmi mi sarò incallito più del dovuto. Che ne so. Fatto sta che ci sono immagini che simbolizzano cose, e questa ritrae uno degli aspetti più vili della condizione umana. La scattò Robert Capa a Chartres, nell’agosto del 1944, quando la città venne liberata dai tedeschi. Al centro dell’immagine cammina una donna giovane con i capelli appena rasati, in vestaglia e con un bambino di poche settimane in braccio. Lei è francese, e il neonato, figlio di un soldato tedesco. Un gendarme la conduce in stato di arresto. Però il peggio non è questa scena, bensì la folla che cammina lì intorno: signore dall’aria rispettabile, uomini che potrebbero essere ritenuti gentiluomini, bambini, curiosi che guardano o ingrossano il tumulto. E tutti, assolutamente tutti, ridono e si prendono gioco della ragazza che stringe il bambino al petto e lo guarda piena di vergogna e di paura. Devono esserci un centinaio di volti nella foto, e nessuno mostra compassione, pena o fastidio per ciò che gli accade sotto gli occhi. Nemmeno uno.
Ognuno ha le sue idee sulla gente. Per quanto mi riguarda, con gli anni sono giunto alla conclusione che il peggio dell’uomo non è la sua crudeltà, la sua violenza, la sua ambizione o gli altri impulsi che lo spingono. Essendo tutto questo brutto com’è, quando guardi da vicino e ci pensi e ti esponi dove devi esporti, finisci sempre per trovare motivi, catene di cause ed effetti che, senza per nulla giustificare questo o quel fatto, a volte almeno lo spiegano, che è già qualcosa.
Però c’è un’infamia di cui non riesco a trovare il meccanismo, e forse per questo mi sembra la peggiore di tutte; la più ingiustificabile espressione della tanta viltà che alberga l’essere umano. Parlo della mancanza di carità. Dell’assenza di compassione del carnefice – e il carnefice è la parte facile della faccenda – nei confronti della vittima. Parlo dell’accanimento, dell’umiliazione, della burla spietata. E questo, che è già molto vigliacco quando corrisponde all’individuo con nome e cognome, diventa ancora più nauseabondo quando adotta la forma popolare.
Mi riferisco ai Fuenteovejuna nel loro aspetto miserabile; alla gente che pretende di dimostrare pubblicamente la sua adesione o il suo rifiuto a questa o a quella causa – quando, naturalmente, quella causa è indifesa e trionfa l’opzione opposta – prestando il proprio zelo e la propria presenza e la propria risata al linciaggio facile, privo di rischi. Ai guardoni che aizzano i cani o si sbellicano dalle risate contro chi è caduto, e in questo modo vogliono giustificarsi, dissimulare, cancellare le proprie mancanze e la propria vergogna. Perché – e questo è un altro aspetto – osservando la foto di Robert Capa ci si domanda quante delle oneste donne che ridono scortando la ragazza rapata e suo figlio non hanno chinato la testa di fronte ai soldati tedeschi con cui forse sarebbero andate a letto, se avessero potuto, in cambio di cibo o di privilegi. Quanti uomini non gli hanno ceduto il passo sul marciapiede o la sedia nell’ufficio, o non gli hanno leccato gli stivali, o non gli hanno messo le figlie a tiro quando gli altri erano i vincitori, e adesso vogliono, nel facile scherno verso quella povera donna e suo figlio, lavare la loro codardia e la loro vergogna.
Ho visto tutti loro molte volte in troppi posti. Li vedo ancora, non c’è bisogno di andare in guerre lontane per incrociarli. Li vedo proprio qui, nelle storie della guerra civile che raccontavano i miei nonni o nella memoria del mio amico, il pittore Pepe Díaz, nel cui paese fucilarono suo padre come rosso nel 1939, mentre sua madre venne costretta a spazzare le strade dopo che le raparono la testa; e Pepe, che è un brav’uomo, ha lasciato che adesso diano il loro nome a una via, invece di dare fuoco a quel cazzo di paese fino alle fondamenta, come avrebbero – avremmo – fatto altri.
Continuo a vedere dappertutto quelli con le forbici per rapare, opportunisti, vili, in attesa dell’occasione per accompagnare il corteo con una risata grassa e rumorosa, tipica di bravi cittadini liberi da ogni sospetto. Perché tutte quelle canaglie che ridono della povera donna della foto sono ancora tra noi. Alcuni davvero, fisicamente, venerabili vecchietti rispettati dai nipoti e dai vicini, immagino. Altri aspettano soltanto un’opportunità: sono i codardi, che guardano dall’altra parte e chinano la testa quando il soldato tedesco, o l’eroico gudari, o il politico di turno, o il capo del personale, o il vicino del terzo piano, gli sputa in faccia. E soltanto quando quest’ultimo si dichiarerà sconfitto, o lo ammazzeranno, o perderà il potere, o se ne andrà, usciranno dalla tana per cercare la moglie e il figlio, trascinarli per le strade e comparire ridendo nella foto.
(Traduzione di Bruno Arpaia Pérez-Reverte)