Giovedì 18 Aprile 2024

Palombella rossa restaurato, la lezione di Nanni Moretti

Uno schiaffo all'Italia che parla e pensa male: quella scena è ancora attualissima

Una scena cult di 'Palombella rossa' di Moretti: "Le parole sono importanti"

Una scena cult di 'Palombella rossa' di Moretti: "Le parole sono importanti"

Roma, 24 novembre 2016 - «QUESTO è un film di 27 anni fa, forse il più faticoso. Giocare a pallanuoto, recitare, spesso urlando, dirigendo una squadra di pallanuotisti, che non erano attori, e centinaia di comparse non è stato facile. Con riprese di giorno e di notte, con orari al limite». Così ieri sera al Torino Film Festival Nanni Moretti in una sala strapiena ha introdotto la “prima” della versione restaurata dalla Cineteca Nazionale di “Palombella rossa”, 1989, film sulla crisi della sinistra italiana incarnata dal protagonista, Michele Apicella, funzionario del Pci vittima di perdita di memoria. «Mi sembrava ci fosse, all’epoca, un certo ritorno all’accademismo e che ci si accontentasse di storie ben fatte e ben costruite, mentre io volevo raccontare storie con molta libertà, non fare un film realistico», ha detto ieri Moretti. Centrale nel film una partita di pallanuoto, scena cult l’intervista di una improvvisata e impacciata giornalista che dopo domande infarcite di anglismi e luoghi comuni si deve confrontare con lo schiaffo e la replica urlata di Apicella: «Ma lei lo sa che le parole sono importanti: chi parla male, pensa male e vive male».

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NON POTEVA che finire a schiaffi, conoscendo il tipo. A Nanni Moretti – o al suo alter ego Michele Apicella – una trita frase fatta o un anglismo inutile provocano un riflesso condizionato. Sono il martelletto del medico sul ginocchio del paziente: il risultato in quel caso fu un ceffone alla rampante giornalista, in altri film furono severe rampogne a chi non sapeva usare correttamente la lingua. Come in “Ecce Bombo”. Perché sono importanti non soltanto le parole, ma persino le consonanti.

Ci aveva visto lungo, Moretti, 27 anni fa. E pensare che non erano ancora arrivati internet & iPhone invadere, con i loro eserciti di verbi meticci (tipo “whatsappare”) i già precari confini della lingua che fu di Dante e ora è del Grande Fratello. Ci aveva visto lungo. Reagendo stizzito ma, ovviamente, non fermando il crollo. «In effetti il fenomeno era già in corso» sorride il professor Francesco Sabatini, autorità in materia di Lingua, autorevole custode e gendarme dell’Italiano come può esserlo il presidente onorario dell’Accademia della Crusca, la vera cittadella fortificata del parlato e dello scritto. E che ha appena pubblicato per Mondadori “Lezione di italiano”, dove esorta: prendi consapevolezza della tua lingua per usarla in tutta la sua meravigliosa potenza. Magari.

Siamo andati sempre peggio, da “Palombella rossa” in giù. E il professore lo sa. «La lingua, per sua natura, è sempre in movimento e a volte questo può essere rapido e sconvolgente. La vera sfida è saper dominare questi processi di rinnovamento, di contatto con altre lingue».

Dio ce ne guardi: i ragazzi hanno ormai un vocabolario che si riduce a qualche centinaio di termini (una miseria, roba che un robot se li mangia) molti dei quali, olretutto, appartengono alla variegata sfera dello slang genitale. E gli adulti, in piena sindrome di Peter Pan, finiscono in bocca alle semplificazioni dei social. E purtroppo anche loro non hanno buoni esempi ai quali guardare. Col rischio di prendere – lessicalmente – scorciatoie ridicole. «Cito dal mio libro – incalza Sabatini –: ma come fa il singolo cittadino ad accettare l’invito a una condotta linguistica consapevole se il nostro governo per primo si profonde nel farcire di anglismi la terminologia relativa agli ordinamenti cardine dello Stato? Valga per tutti il Jobs Act.  O lancia un “programma di trasparenza” che intitola Open Government ?»

COLPITO. Politici, imprenditori con il pallino del “management”, giornalisti: tra le categorie a rischio-condanna, in un eventuale processo in cui un linguista fosse pubblico ministero. Difficile difendersi, quando si viene accusati di usare troppo (e male) una sequela di location, mission, performance, competitor, default e welfare – tanto per sciorinare quelli che Sabatini bolla come «i più fastidiosi e sguaiati» – al posto di equivalenti, calzanti, perfetti termini che la generosa lingua italiana ci offre.

«Questione di pigrizia, o anche di supponenza – ribadisce –. E pensare che basterebbe attenersi a poche regole: sei veramente padrone del significato di quel termine? Lo sai pronunciare correttamente? Lo sai scrivere? E, da ultimo, sei sicuro che il tuo interlocutore lo comprenda?».

Se anche uno solo di questi requisiti non viene rispettato, il risultato è certo: «O stai facendo una brutta figura, o usi quel termine, appunto, per pigrizia. Oppure, peggio, disprezzi il tuo interlocutore». Il che può anche costarti uno schiaffo, se di fronte hai Moretti.

LA SOLUZIONE non è, ovviamente, tornare al Tommaseo. O dire “coda di gallo” al posto di “cocktail”. «No, no, certo – ride Sabatini –, evitiamo i nazionalismi fuori luogo: è una malattia che abbiamo già superato e scontato. L’inglese in fondo può essere utile, e i giornalisti sanno bene – ammicca – che ha molte parole monosillabiche: per i titoli sono comodissime». La categoria è parzialmente assolta.

Il fatto è che la lingua non si ferma mai, ha una vita propria e non può essere immune dal contagio delle novità. Neppure da quelle, virali, che pullulano su internet. «I social – conclude il professor Sabatini – hanno rinnovato molto e non possiamo osteggiare il computer per partito preso. Ma attenti ad affidare a strumenti esterni al nostro corpo ciò che gli apparterrebbe. Ad esempio oggi non si scrive più a mano e questa, alla lunga, diventa una mancanza di padronanza e di conoscenza che si riflette negativamente sul liguaggio. Ovvero sull’unico fattore che ci differenzia dalle altre specie: che ci fa fografare e comunicare il mondo. Noi siamo homo sapiens per questo, soprattutto per questo».

Ricetta antica: usare il cervello. Ma non parlate di brainpower.

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