Pahor, lo scrittore che (ri)nacque a 90 anni

Addio a 108 anni al narratore sloveno di Trieste, a lungo inedito in italiano. La lettera del ’96 con l’annuncio della traduzione di ’Necropoli’

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di Lorenzo Guadagnucci

Correva l’anno 1996 e Boris Pahor, che di anni ne aveva già 83, era uno scrittore pressoché sconosciuto non solo in Italia ma perfino nella sua città, Trieste, che ha prodotto sì grandi scrittori, ma non si è mai curata dei tesori nascosti nella sua negletta minoranza. Eppure Boris Pahor, sloveno di Trieste, morto ieri alla bella età di 108 anni, era a quel tempo un romanziere già tradotto (e spesso premiato) in francese, inglese, tedesco. Ma non in italiano. Nel ’96 dunque Le Monde, giornale francese fra i più prestigiosi in Europa, riservò uno dei suoi rinomati “Portrait“ – una pagina intera dedicata a un personaggio – proprio allo scrittore triestino, sull’onda del successo incontrato in Francia da Printemps difficile (Una primavera difficile), il romanzo uscito in sloveno nel 1958 e incentrato sulla convalescenza in Francia, con tanto di storia d’amore con un’infermiera, del protagonista – alter ego dell’autore – reduce da lunghi mesi di prigionia nei lager nazisti, dov’era stato internato col triangolo rosso, quello riservato agli oppositori politici.

Pahor in quel 1996 era del tutto inedito in lingua italiana: lui – laureato a Padova – ex professore d’italiano nei licei sloveni della sua città e autore ormai di una ventina di apprezzati romanzi. Al cronista che lo interrogava interdetto, rispondeva serafico, quasi rassegnato: "Io scrivo nella mia lingua madre e nessun editore ha mai voluto tradurre i miei libri in italiano. Purtroppo nel resto d’Italia si stenta perfino ad ammettere che a Trieste ci sia una comunità slovena con una propria cultura..."

Proprio a Trieste, tuttavia, cominciava l’invisibilità di Pahor e dell’intera cultura slovena: un velo di non comunicazione separa da sempre gli italofoni dalla minoranza, composta da persone nominate nel dialetto locale, con una spunta di disprezzo, “s’ciavi“, cioè slavi ma anche schiavi. Nemmeno Angelo Ara e Claudio Magris, nel loro celebrato Trieste, un’identità di frontiera, acuto saggio sulla vocazione storica e letteraria della città, avevano nominato Pahor nella prima edizione del libro (1982).

Lui non si lamentava più di tanto e qualche tempo dopo l’uscita dell’intervista – forse la prima per un quotidiano di respiro nazionale – scrisse al cronista una lettera battuta a macchina per ringraziare dell’attenzione e annunciare una piccola ma importante novità: "Purtroppo la sua fatica (l’articolo uscito sui nostri giornali, ndr) non servirà molto a cambiare le disposizioni “d’animo“. Forse ci riuscirà un’organizzazione di Ronchi che ha premiato la traduzione italiana del mio libro Pellegrino tra le ombre. Sembra che faccia il possibile per pubblicarlo. Sarebbe bene per gli amici italiani, che così mi conoscerebbero come scrittore. Vedremo, se sono rose fioriranno".

Le rose fiorirono e l’anno dopo, 1997, un piccolo editore della provincia di Gorizia, il Consorzio culturale del Monfalconese, pubblicò la traduzione col titolo Necropoli. Ma la notorietà per Pahor sarebbe arrivata solo un decennio più tardi, quando Necropoli – cronaca del ritorno nei luoghi della prigionia a vent’anni di distanza – fu pubblicato dall’editore Fazi (40 anni dopo l’uscita in sloveno) e l’autore si trovò in televisione ospite di Fabio Fazio. A quel punto, anche per gli italiani, o meglio per gli italofoni, era nato uno scrittore, ormai ultranovantenne.

Boris Pahor coi suoi libri ha fatto conoscere il dramma degli sloveni al confine orientale: vessati dal fascismo, privati perfino del diritto d’esprimersi nella propria lingua. Un fascismo che proprio a Trieste, con un feroce e pionieristico squadrismo, si fece per così dire le ossa (spezzando le ossa altrui): con Boris Pahor – non dimentichiamolo – se n’è andato l’ultimo testimone oculare dell’incendio in piazza Oberdan a Trieste del Narodni Dom, la casa della cultura slovena, il 13 luglio 1920, punto d’avvio dell’opera di snazionalizzazione della minoranza e annuncio del regime che di lì a poco si sarebbe insediato in tutt’italia.

Proprio Pahor, coi suoi romanzi, che sono storie di vita e spesso d’amore ma sempre attraversate dalla Storia con la esse maiuscola, ha fatto capire agli "amici italiani" quanto sia stata atroce la privazione della lingua: il giovane Boris, quando fu imposto il divieto di esprimersi in sloveno a scuola, entrò in una crisi personale e psicologica profonda, e solo col tempo, la perseveranza e lo studio (prese il diploma classico e cominciò l’università in tempo di guerra, studiando sotto le armi in Libia) si sarebbe riconciliato con la lingua italiana fino a diventare un apprezzato insegnante della nostra letteratura.

Pahor è stato lo scrittore della coscienza nazionale (da non confondere, diceva, col nazionalismo) e un testimone delle sofferenze inflitte dal nazifascismo alle popolazioni europee. Necropoli è ormai un classico della letteratura sui lager e altri suoi libri come Oscuramento, Una primavera difficile, Qui è proibito parlare sono destinati a restare. Possiamo già considerarlo – finalmente – come uno dei maggiori scrittori triestini del ’900.

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