ArchiveOscar 2021, il tramonto del sogno americano

Oscar 2021, il tramonto del sogno americano

Solo un film racconta Hollywood (Mank). Gli altri sette in corsa sono storie di emarginati, tra bagliori di umanità e lotte per i diritti civili

Joaquin Phoenix migliore attore 2020: gli Oscar 2021 si vedranno in Italia su Sky tra il 2

Joaquin Phoenix migliore attore 2020: gli Oscar 2021 si vedranno in Italia su Sky tra il 2

Nell’anno più terribile della storia recente di Hollywood, l’Academy proverà a festeggiare il non festeggiabile (cinema chiusi più o meno in tutto il mondo da mesi e mesi) domenica con la 93ª cerimonia degli Oscar. I magnifici otto in gara per il miglior film sono in realtà sette più uno: l’“uno” – nel senso di unico, eccentrico rispetto agli altri – è Mank, che guida la corsa col maggior numero di nomination, 10. È unico perché è il solo film degli 8 che guarda esclusivamente al passato, un passato che non si riverbera nel presente ma che si focalizza su una questione squisitamente cinefila, ovvero l’autentica paternità del capolavoro che ha gettato le basi del cinema come lo intendiamo ancora adesso, Citizen Kane, Orson Welles, 1941.

Piuttosto incomprensibilmente David Fincher ha scelto di sposare senza se e senza ma la tesi sostenuta dalla critica del New Yorker Pauline Kael nel ‘71, tesi che si basava perlopiù sulle testimonianze della segretaria dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz (fratello maggiore del regista più famoso di lui, Joseph L. Mankiewicz, quello di Eva contro Eva), e che appunto sosteneva come fosse Mank il vero autore di Quarto Potere, e Welles una sorta di profittatore (dipinto nel film smargiasso e anche un po’ ottuso) del genio altrui. È una questione che lo stesso Fincher ha scelto di raccontare in un’opera – prodotta da Netflix – tanto tagliata con l’accetta nella sua essenza a favore di Mank (interpretato da Gary Oldman, già Oscar per il ben più misurato Churchill), quanto stilisticamente contraddittoria vista la grandeur visionaria tipicamente wellessiana (bianco e nero potente, profondità di campo) con cui tale essenza è messa in scena.

È una questione che appassiona – indignandoli – i fan di Welles, e appassiona forse Hollywood, ma non va più in là di questo. Mentre gli altri 7 film sono tutti strettamente legati all’attualità, all’oggi, e al racconto dei deboli, degli sconfitti. Non un grande sogno hollywoodiano declinato nei rivoli estetizzanti di un’antica faida tra autori d’élite, ma l’intero sogno americano declinato nei rivoli violenti, dolenti, miserabili eppure talvolta ancora capaci di sperare contro ogni speranza, della sua gigantesca sconfitta.

È il caso di Nomadland, probabilmente il più bello degli otto, con la regista cinese approdata negli Usa per studiare cinema Chloé Zhao, 39 anni, che grazie alle voragini di dolore incastonate nel rigore roccioso eppure trasparente del volto di Frances McDormand racconta l’America che lavora a termine da Amazon per poi vivere dentro a miseri furgoni spostandosi tra le piccole città e la sterminata natura. Una “comunità” di derelitti (ma persone più che normali, anziane, curiose, colte, soltanto distrutte dalla crisi economica) che si rivelano tutti buoni, generosissimi: la scena clou è la McDormand che in una specie di deserto di rifiuti continua a coltivare la ricchezza interiore e l’empatia recitando Shakespeare a un ragazzo mezzo rovinato: il Sonetto 18, "Dovrei paragonarti a un giorno d’estate?", rievocando da vedova i voti matrimoniali.

Stessa poetica di Nomadland, Minari: frammenti di sogno americano inseguiti da una famiglia emigrata dalla Corea, negli anni ’80, nella campagna dell’Arkansas, a costo di sacrifici ai limiti della schiavitù ma riscattati da un’umanità ancora una volta tanto derelitta quanto generosa. Alla regia Lee Isaac Chung, nato negli Usa con origini sudcoreane; produce la Plan B di Brad Pitt (12 anni schiavo, Moonlight).

Dalla parte dei derelitti (ragazze stuprate perché ubriache) la commedia noir Una donna promettente della regista inglese Emerald Fennell, il drammatico Sound of Metal (un giovane batterista ex tossico che impara in una comunità rurale a venire a patti con il proprio improvviso handicap) e The Father, messinscena in un thriller da “camera“ della discesa nella demenza senile di un superlativo Anthony Hopkins, produzione inglese, regia del francese Florian Zeller.

Infine i due film più politicamente potenti, entrambi tratti da fatti veri e ambientati nella Chicago degli scontri tra neri, pacifisti e polizia tra ’68 e ’69: Il processo ai Chicago 7, una sorta di Fragole e sangue redivivo, punta su Sacha Baron Cohen nei panni dell’eroe hippy della controcultura americana Abbie Hoffman (Ruba questo libro). Ma soprattutto, occhio alla mosca “nera“ degli Oscar 2021: il primo film ad ambire alla massima statuetta di intera produzione black, Judas and the Black Messiah, sulla storia autentica dell’infiltrato nero che per conto dell’Fbi tradirà il 21enne Fred Hampton, leader delle Pantere Nere. "Non è questione di violenza o non violenza è questione di resistenza al fascismo. Puoi ammazzare un rivoluzionario che lotta per la libertà ma non la libertà", dice Fred nel ’69. Mezzo secolo prima di Black Lives Matter, ma come fosse oggi.