Giovedì 25 Aprile 2024

"Oltre i confini di specie per salvare il pianeta"

Ai Dialoghi di Pistoia una riflessione a più voci su “Umano e non umano“. L’antropologo Staid: "Va abbandonata l’idea di dominare i viventi"

di Lorenzo Guadagnucci

Andare oltre l’umano. E ripensare tutto: l’economia, la società, un’intera idea di mondo. L’edizione 2023 dei Dialoghi di Pistoia (domani la giornata di chiusura) non si pone confini e dichiara nel titolo l’ambizione di esplorare dimensioni nuove: Umani e non umani. Noi siamo natura. Oggi alle 12 al Teatro Bolognini Andrea Staid, antropologo, docente all’Università di Genova e al Naba di Milano, autore da ultimo di Essere natura (Utet), parlerà con Leonardo Caffo attorno al tema Umani e non umani. Oltre la frontiera delle specie.

Andrea Staid, oltre la frontiera delle specie, cioè?

"Cioè, per quello che mi riguarda, si tratta di arrivare alla possibilità di pensarci in modo differente nella relazione con gli altri animali e con il vivente che ci circonda. Quindi, da antropologo, immagino un’ecologia più sociale, più profonda, ma soprattutto che va oltre la specie Homo Sapiens".

C’è uno scarto evidente rispetto all’antropologia classica.

"Sì e no, nel senso che negli ultmi trent’anni l’antropologia è passata a una decostruzione della dicotomia che separava uomo e animale, natura e cultura. Io stesso negli ultimi dieci anni ho fatto etnografia nelle regioni del sud-est asiatico, dove mi occupavo dell’abitare, e mi sono sempre più reso conto che quello che noi siamo come specie lo dobbiamo proprio alle relazioni multispecie. Relazioni che possono essere nocive, com’è il nostro caso, ma anche di corrispondenza e collaborazione".

Nocive in che senso?

"Nella nostra cultura occidentale abbiamo una relazione gerarchica, verticale, con gli altri viventi, soprattutto vediamo il mondo che ci circonda come un magazzino senza limiti e da sfruttare. Ci sono invece altre società, e non solo fuori dall’occidente, che pensano e si pensano attraverso relazioni non antropocentriche, non basate sulla dominazione. Attenzione: possono essere anche relazioni conflittuali, non voglio banalizzare la questione; ma sempre relazioni sono".

Qualche esempio di società non antropocentriche?

"Le più note, grazie anche agli studi di Descola e Viveiros de Castro, sono le comunità indigene dell’Amazzonia: il prospettivismo amerindiano nelle relazioni multispecie. Ma le cose non sono molto diverse per gli aborigeni australiani, i nativi hawaiani, per fare altri esempi. Per rimanere in Europa possiamo citare i bioregionalisti, o la rete degli ecovillaggi, che in Europa è enorme e anche in Italia conta decine di esperienze. Per non parlare dei “nuovi agricoltori“, persone che ragionano a livello biodinamico, di sinergie e corrispondenze non solo con gli animali ma anche con i vegetali. In Europa è anche giusto citare i Sami, una popolazione nativa che è stata colonizzata e distrutta".

In che modo questa possibile evoluzione del pensiero si lega alla crisi climatica in corso?

"Il mio libriccino nasce per questo e il sottotitolo lo esplicita: Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente. Io penso che l’antropologia possa mettere a disposizioni un archivio di esperienze consultabili, ibridabili, da mettere in pratica nel qui e ora. Noi siamo in un momento storico in cui dobbiamo assolutamente cambiare e questo cambiamento, dal mio punto di vista – ottimistico, me ne rendo conto – è qualcosa di positivo. È vero, siamo vicini al collasso, ma possiamo prendere in mano la situazione e cambiare, vivendo in un modo differente, che per me è anche più divertente, più bello, più lento, legato al reciproco, al sociale, al mutuo appoggio. Certo, si tratta di cambiare la prospettiva che abbiamo utilizzato negli ultimi cinque secoli, ma senza dimenticare che come specie esistiamo da cinquantamila anni…"

Viviamo nella società dei consumi, attraverso quali passaggi è possibile immaginare un cambiamento così profondo?

"Dobbiamo innanzitutto decolonizzare l’immaginario dalla società della crescita, come direbbe Serge Latouche. Non per niente la parte etnografica del mio libro si chiama “disertori della crescita“. Il processo di cambiamento deve partire da un approccio individuale, perché sono i soggetti a creare le comunità, ma senza dimenticare che ci sono dei grandi colpevoli del disastro ecosistemico, come ci ricordano gli attivisti di Ultima Generazione ed Extinction Rebellion, ed è quindi necessario anche il conflitto contro chi ha distrutto più di altri in questo pianeta".

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