Non solo guerra I molti volti del coprifuoco

Giovanni

Morandi

Ad alcuni la parola coprifuoco rammenta l’ora del rientro a casa la sera, quando i ragazzi potevano star fuori al massimo fino a mezzanotte. Per altri significa il ritorno in caserma quando c’era la leva obbligatoria. Per chi scrive fu un viaggio di lavoro ad Algeri ai tempi della rivolta del pane, mi pare fosse l’87. Di notte le strade erano presidiate dai militari e decine di carri armati assediavano la kasbah che era diventata il centro della rivolta. All’alba gli uomini scesero nelle strade e furono presi a cannonate, fu una strage e ci furono trecento morti. In quel caso il coprifuoco servì a nascondere un’infamia, che non fu mai ammessa dal regime. Un altro coprifuoco fu quello proclamato dai golpisti di Mosca, ordine che fu tranquillamente ignorato dai moscoviti che si riversarono nelle strade e misero in fuga la cricca reazionaria.

Potremmo dire non ci sia guerra senza un coprifuoco e questo dà una misura della lotta che stiamo combattendo. Il termine veniva usato in occasione dell’oscuramento delle città, con l’obbligo di spegnere tutte le luci per non diventare bersagli dei bombardieri nell’ultima guerra. Anche nella situazione attuale c’è un nemico da cui sfuggire. E inattese e singolari possono essere le reazioni che suscita il divieto. Come raccontano quelli che si sono attardati a rientrare a casa e che hanno avvertito un prepotente impulso a violare quel limite temporale percepito come gabbia. Reazione emotiva al divieto, forse infantile ma ugualmente segno di libertaria indisciplina.

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