Giovedì 18 Aprile 2024

Non si può uccidere un’utopia

Quel giorno di quarant’anni fa, in Italia, il sole spuntò alle 7.27: era il 9 dicembre 1980, un’alba rattrappita e arrabbiata perché mentre quel sole nasceva nelle nostre città, a New York, pochissime ore prima, notte dell’8, 23.09, John Lennon era appena stato dichiarato morto, assassinato da Mark David Chapman. I 4 proiettili che lo avevano colpito alle spalle erano stati sparati davanti al Dakota Building, il lussuosissimo palazzo maledetto di fronte a Central Park dove Lennon abitava e dove – nel ’68 – Polanski aveva girato Rosemary’s Baby. All’ingresso, saliti 5 gradini, Lennon agonizzante, 40 anni compiuti il 9 ottobre, si era accasciato, e il concierge Jay Hastings lo aveva coperto con la sua giacca, levandogli gli occhiali tondi sporchi di sangue. Seduto a bordo marciapiede, lì davanti, Chapman aspettò l’arrivo della polizia leggendo Il giovane Holden di Salinger.

Da tre settimane, dopo 5 anni di silenzio, John aveva pubblicato l’album Double Fantasy, e in Starting over diceva sorridente “è come se ci innamorassimo di nuovo sarà come ricominciare da capo“. Con Lennon morirono tante cose. Morì una delle scintille più luminose del Novecento, che aveva spostato con i Beatles l’epicentro della creatività globale verso un territorio nuovo, “rock revolution”, che aveva sconvolto la musica con un balzo creativo dall’impatto sociale e culturale che ancora oggi stentiamo a comprendere fino in fondo. Moriva il “movimento” degli anni ’60, la liberazione che aveva cambiato i rapporti tra le generazioni e i poteri. Moriva il Working Class Hero, forse, ma non la sua utopia di pace: “Immagina che non vi siano più guerre, fame, motivi per uccidere e possedere. Io sono un sognatore, ma non sono l’unico”. E un sogno come questo non muore, né di notte né all’alba. Perché basta continuare a cantarlo, insieme e uniti.

Chiara Di Clemente

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