Roma, 15 maggio 2025 – Da cattedrale della libertà creativa, Cannes si reinventa pretura del pudore, in una vertigine di cavillosità che ha più a che fare con l’ufficio protocollo di un municipio balneare che la ribalta del cinema mondiale. Non è la proliferazione di piattaforme che trasformano i film in algoritmo, né la malinconica serializzazione dell’immaginario collettivo a togliere il sonno al più blasonato dei festival di cinema. Ma una clavicola scoperta, un’areola in libertà, una balza di troppo. La mitica “montée des marches”, 24 gradini di scalinata rivestiti di tappeto rosso, si è trasformata in un campo minato di regole sartoriali dove il corpo femminile è ridotto a un’equazione matematica: né troppo nudo (scandalo!), né troppo vestito (ingombro!).

Se negli anni passati dive e top model sfoggiavano “naked dress”, abiti supertrasparenti che lasciavano intravedere più carne che arte (pensiamo a Bella Hadid, che nel 2024 sfoggiava un abito di Saint Laurent realizzato nello stesso tulle elastico dei collant), oggi si impone un ritorno alla “decenza”: così tuona il comunicato ufficiale. Decenza, parola che sembra evocare più la morale ottocentesca di Emma Bovary che una rassegna celebre per eccessi cinematografici e no.
L’altro ieri Halle Berry, che fa parte della giuria, è stata costretta a cambiare un abito del couturier indiano Gaurav Gupta perché troppo ingombrante in favore di una mise più modesta firmata Jacquemus, commentando con diplomatica ironia: "La regola sulla nudità è probabilmente buona". Non mancano le note comiche. Il divieto degli abiti voluminosi – giustificato con il “flusso degli ospiti” – suona come una presa in giro alle donne che osano occupare spazio. Massiel Taveras, l’anno scorso, ha trasformato il suo strascico in un’installazione performativa, finendo in litigio con una guardia. Eppure, è lo stesso festival ad aver creato e celebrato questa teatralità corporea, accogliendo negli anni nudi plateali come quelli di Cicciolina nell’88, la lingerie esibita con sublime spavalderia da Madonna nel ’91 firmata Jean-Paul Gaultier, il blazer strategicamente aperto sul retro sulle culotte-perizoma di Victoria Abril nel ’97, sempre (s)vestita dall’enfant terrible della moda francese.
Naturalmente, qualcuno ritiene che vietare abiti da sogno sia un gesto sensato per evitare ingorghi sartoriali e crisi logistiche. Ammettiamolo: Cannes non è un ordinato parcheggio, ma un’arena in cui ambizioni e capricci si manifestano in metri di chiffon e tonnellate di tulle. Però questo nuovo dress code non risparmia nemmeno le calzature: niente sneakers, proibiti pure gli zaini, in nome di una vaga idea d’eleganza che odora sinistramente di ritorno al passato. Come dimenticare Julia Roberts che, sorridente nel 2016, sfidò apertamente la dittatura del tacco alto? O Kristen Stewart che, nel 2018, si tolse platealmente le Louboutin davanti a decine di flash estasiati?
Ora, questo sussulto ribelle rischia di essere soffocato da una sorta di controriforma conservatrice in cui le donne devono essere sobrie, ma non troppo; coperte, ma non velate; eleganti, ma senza esagerare; in sintesi, misurate. C’è chi si prepara alla resistenza glamour, alla disobbedienza chic, a qualche déshabillé che ignori queste regole imposte che probabilmente saranno applicate con zelo solo alle meno famose, alle starlette di serie B. Perché il paradosso, come notava Joan Rivers già nel ’94, è sempre stato questo: ogni red carpet è sì un immenso spot pubblicitario di brand famosissimi, ma è anche una questione politica, sociale, un atto di libertà o una dichiarazione di conformismo, a seconda di come la si guarda. O meglio, a seconda di chi la guarda.